Cadere per rialzarsi : ” El Burrito “Ortega e i fantasmi di una vita.

Ariel Arnaldo Ortega è stato un personaggio controverso e pieno di contraddizioni che ha fatto del calcio un fantasioso mezzo per esprimere se stesso e quello che di più sincero aveva da dare alla gente.  In primis a spettatori e tifosi, che hanno avuto il piacere di ammirare le sue funamboliche giocate 

Il genio sportivo oltre l’uomo

Lirica e Fango, cielo e abissi. Due opposti che ben descrivono la sua personalità. Si perchè Ariel fa parte di quella cerchia ristretta di uomini, che deve tutto allo sport per le sue numerose mancanze. Ma in fondo; se riuscite a cambiare leggermente la prospettiva capirete anche che lo sport stesso ha bisogno di questi “geni srelogati” e che se non ci fossero stati probabilmente oggi non saremo qui a raccontare di loro e di quei lampi di estro che ci hanno fatto innamorare.

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C’è qualcosa di strabiliante in lui. Come se sapesse trasformare una semplicità quasi becera , in gesti talmente complessi da risultare parte della sfera celestiale, più che di quella umana. E quando a trentanove anni abbracciato a suo figlio, è uscito per l’ultima volta dal prato del monumental, c’erano 120 mila occhi bagnati da lacrime di gratitudine e di dolore. Erano lacrime d’amore, per quel che era stato, che avrebbe potuto essere e che è ancora tutt’oggi.

“Hacélo y me muero. Hacélo y me muero. La tiró por arribaaaa! Me voy! Me voy! Te quiero hasta the final de nuestras vidas! Te amo futbolisticamente! Siempre fuiste mio Ariel! Ese gol no merece mi grito. Merece el grito de tu gente Ariel! “

Ecco un primo esempio del cambio di prospettiva necessario per arrivare ad amare Ariel Ortega. Generalmente si pensa che il suo marchio di fabbrica calcistico siano stati i pallonetti:  le vaselinas estratte dal cilindro da Buenos Aires a Istanbul, da Valencia a Genova.

E invece il vero marchio di fabbrica di Ortega non è il pallonetto ma il dribbling. La cosa che gli ha sempre dato più soddisfazione, su un campo da calcio, ma probabilmente a livello assoluto, è l’avvertire quel leggero movimento di aria prodotto dalla gamba del suo avversario mentre si muove a vuoto nel tentativo di evitare la gambeta. Un refolo di felicità, fugace e difficilissimo da conquistare.

Le difficoltà della vita

In molti sono convinti che l’avversario principale del suo talento sia stato l’alcolismo, ma lo fraintendono con la depressione. L’alcool è stato per Ortega la via più semplice per scappare dal mal di vivere, sull’esempio inevitabile di un padre che aveva fatto lo stesso. Come sostiene il National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism degli Stati Uniti, per i figli di alcolizzati cronici si moltiplica da quattro a nove volte la possibilità di diventarlo.

Nella sua vita , certe cose non le ha mai capite e forse anche per questo la sua personalità era piena di interrogativi.

Come quella volta in cui si giocava il grande clásico che paralizzava la sua città: Alberdi contro Ledesma. Orteguita, poco più che quindicenne, era in panchina nel Ledesma. Ed era anche l’unico in tutto lo stadio che non sapeva dell’accordo fra i due club: oggi si pareggia, così entriamo entrambi nei play-off.

Entra anche lui, a dieci dalla fine, sul punteggio ovviamente di parità. La partita sembra quasi non giocarsi  più, e il piccolo Ariel non ne capisce il motivo. Quando gli arriva un pallone fra i piedi, è fin troppo facile per lui andare in gol. Un ragazzino che decide il derby della sua città. Gioia pura. Ma solo per lui. Nessuno lo abbraccia, tutti lo insultano. Perché? Il primo di tanti, nella carriera di Ariel Arnaldo Ortega…

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Anche a Buenos Aires arriva pieno di interrogativi. A sedici anni, solo, senza famiglia e senza la possibilità di fare un vero e proprio apprendistato. Un paio di mesi con le giovanili, solo tre partite con la Reserva ( squadra primavera)  e poi dritto alla prima squadra.

Se dovessimo pensare ad una figura paterna, senza dubbio , Daniel Passerella è stato per Ortega un vero e proprio padre sportivo, l’unico in grado di entrare in quella sorta di  “guscio” che lo circondava. Passarella lo fa debuttare a diciassette anni, nel 1991, agli albori della costruzione di una delle versioni più belle e vincenti della storia del Club Atlético River Plate. Non impiegò molto a capire che quel ragazzino aveva grosse potenzialità date dalle sue enormi qualità tecniche, ma dall’altro lato che si trattava di un caso disperato messo davanti alle difficoltà della vita senza alcuna base.

Provò a fornirgliela, facendo cose come quella volta in cui, alla fine dell’allenamento, lo caricò in macchina e lo portò personalmente in banca per fargli aprire un conto corrente. Ortega non aveva la più pallida idea di cosa fosse.

Ciò di cui invece si intende a meraviglia, Ariel, è il gioco del calcio. Lo interpreta del resto come un vero fuoriclasse argentino , giocate incredibili e spettacolo puro, tutto pur di rendere felice il tifoso.

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La carriera

Il primo ciclo riverplatense del Burrito si può dividere in due parti: la prima, dal 1991 al 1994 con Passarella al comando, è stata quella della consacrazione. Nel quadriennio della sua esplosione, fra i diciassette e i vent’anni, prima del suo primo Mondiale e di diventare un beniamino trasversale di tutto il popolo calcistico albiceleste, Ortega vince tre titoli d’Apertura e si impone come il più argentino dei talenti argentini.Nel biennio con Don Ramón il “Burrito”, conquista un altro campionato e soprattutto la Copa Libertadores del 1996, la seconda nella storia dei millonarios.

Orteguita scende sul rettangolo e regala gioie a non finire. Dribbling sfacciati e golazos indimenticabili. Il primo lo segna nel luglio del 1992 al Quilmes. Il più bello, forse, lo regala poco prima di partire per l’Europa, nel 1996 contro il Ferro. Un canto al “futbol” , una poesia disegnata da una corsa in diagonale,da destra a sinistra, un’accelerazione bruciante in area di rigore e una vaselina tanto dolce quanto letale. Un lampo improvviso  di luce bianca, di quelli che durano un istante ma rimangono tatuati negli occhi  per l’eternità.

Due momenti che riflettono una vita dedicata al futbol.

La figura di Ariel Ortega si nutre di passione e fantasia , un amore incondizionato verso il mondo del futbol che fin da bambino lo ha visto calcare i campi con la voglia di divertirsi e far divertire. In campo era apparizione prima che apparenza. Quando era così in stato di grazia, non si esibiva in giocate: metteva in scena momenti iconici. A doverne scegliere due più significativi si fa fatica, ma vale la pena fare un tentativo.

Il primo: bisogna tornare al 30 Aprile del 1994. Giorno di Superclásico. Giorno trionfale per la storia e la gente del River Plate.

Si gioca nel catino della Bombonera , dove i millionarios non vincono da otto anni.Di fronte c’è il Boca di Menotti, duro e brillante. E c’è il solito ambiente infernale del colosseo xenéize, nel quale Passarella  entra con un vistoso asciugamano bianco posto sul capo, per ripararsi dagli sputi che piovono a cascate dalla tribuna azul y oro.

Orteguita resta al centro dell’attenzione di tutti i tifosi naturalmente che sperano in una delle sue magie, per scacciare i fantasmi della Bombonera. Appena ventenne, si cala subito nel ruolo e illumina la manovra fornendo palloni a raffica al suo partner d’attacco Hernan Jorge Crespo ( la prima volta che calca il manto erboso della Bombonera) che tuttavia non sembra riuscire a sfondare la porta avversaria.

Quando però i ruoli si invertono, arriva l’apoteosi: quattordicesimo del secondo tempo, “Valdanito” non si perde d’animo, lavora di spada e di fioretto, serve una palla filtrante per la corsa di Ortega che col destro fulmina Navarro Montoya sul primo palo.

Finirà 0-2, perché appena prima dei tre fischi Crespo troverà il modo di piazzare anche il suo timbro.

La notte del 26 Giugno 1996 si gioca la finale della Libertadores contro l’America de Cali ed è l’appuntamento cruciale per una generazione intera di Millonarios. Il River si presenta con una formazione mostruosa piena di talenti : ci sono sempre Crespo e Ortega, oltre che punti di riferimento come Astrada, Hernán Díaz e Cedrés. Ma ci sono anche Francescoli, il “Mono” Burgos e giovani in rampa di lancio come Sorín, Almeyda e Gallardo. L’andata in Colombia è finita 1-0, il River deve rimontare e il suo popolo è pronto a spingere con tutta la propria forza.

Francescoli , il capitano incita i suoi fin dalle prime battute. Ma il primo, forte segnale lo dà il Burrito, che subito dopo il fischio iniziale prende palla e produce uno slalom speciale seminando tutta la mediana dell’America. Poi la perde, ma la dimostrazione è subito chiara e lì, dopo soli trenta secondi di gioco, s’infrangono già i sogni colombiani: quella notte era già scritta, e il cielo sopra il Monumental si colorava di bianco – rosso . Giusto il tempo, Almeyda  da centrocampo disegna un passaggio verso destra. Ortega s’ invola , verso la porta . Guarda una sola volta, poi fa un cross perfetto. Una traiettoria che sembra calcolata al millimetro per sfiorare le punte dei piedi dei difensori colombiani e impattare l’interno destro di Crespo, libero al centro di un’area di rigore ricoperta di papelitos.

El partido terminerà con un 2-0 , grazie alla seconda mercatura ancora opera di  Hernan Crespo . Il River conquista la sua seconda Libertadores. Orteguita a soli 22 anni tocca il paradiso.

Tira però aria di cambiamento . Cosi il 28 Febbraio del 1997, in un 4-0 all’Union di Santa Fé, saluta il popolo del Monumental . Destinazione Europa , Valencia.

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Destinazione Europa.

Un ‘infanzia tribolata e piena di insidie nella sua Buenos Aires , l’impatto con l’Europa resta altrettanto traumatico. Alla guida del Valencia c’è Claudio Ranieri e  fin da subito si intuisce che il rapporto tra i due è reso difficile dalle enormi diversità caratteriali. Da una parte il Burrito , spirito libero e poco incline ai vincoli di un calcio fin troppo ingabbiato da schemi . Dall’altro Ranieri, forse non troppo flessibile e disposto a modificare le sue tattiche in favore di un solo giocatore.

E’un dato di fatto che i due non si piacciono, e probabilmente mai hanno provato a farlo. Gli anni valenciani per cui si rivelano estremamente pesanti per Ariel tanto da spingerlo ad un nuovo cambiamento. Destinazione Genova.

Prima della nuova avventura italiana però c’è una tappa fondamentale della sua carriera : Il mondiale transalpino del’98.

Il secondo dei suoi tre mondiali giocati. Senza dubbio il più significativo per svariati motivi, a partire dal fatto che alla guida dell’albiceleste El burrito ritrovava il padrino Passarella. Il c.t nonostante le difficoltà valenciane aveva deciso di scommettere ancora su di lui. A lui aveva affidato la camiseta n° 10 di Diego e con lui andò a giocarsi il Campionato del Mondo.

Assist a Batistuta nel sofferto 1-0 dell’esordio contro il Giappone, doppietta sfolgorante e altro assist per il Bati nello show contro la Giamaica. Poi palla vincente anche a Pineda nell’1-0 sulla Croazia, a conclusione di un girone perfetto per l’Argentina e per il suo numero 10, che in quei giorni sembrava davvero il nuovo Maradona. Poi l’Inghilterra, in una partita che è entrata di diritto nella storia del calcio argentino: quella del golazo di Owen, dell’espulsione di Beckham, del 2-2 del “Pupi” Zanetti su di uno schema da calcio piazzato (marchio di fabbrica di Passarella), dei rigori parati da Roa a Ince e Batty. Dell’ennesima vendetta sugli inglesi.

Un Ortega motivato e che senza neanche apparire nel tabellino dei marcatori aveva ancora una volta dimostrato che quel 10 gli calzava a pennello. Purtroppo il mondiale per Ariel assunse un’epilogo triste nella semifinale contro gli olandesi. All’87’ dopo aver letteralmente perso la ragione ,  colpisce con una testata l’estremo difensore  Van der Sar e viene cacciato dal rettangolo di gioco.

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Parentesi italiana.

Genova sembra un buon posto per Ortega . Alla Sampdoria, Ariel regala i pochi attimi di entusiasmo in un anno nero:  la punizione alla Juventus , la serie di gambetas all’Empoli, e soprattutto la vaselina “antifisica” contro l’Inter, che rimane il suo più grande capolavoro italiano, oltre che uno dei gol più belli che si ricordino in Serie A.

Un gol che è anche un manifesto della sua semplicità, del suo essere senza filtri, del suo fregarsene delle conseguenze: esultò, come tante altre volte, togliendosi la maglia. Solo che era diffidato. Venne ammonito e dovette saltare lo scontro salvezza col Vicenza del turno successivo: la Sampdoria perse, avviandosi  verso una retrocessione tutt’altro che preventivata e molto difficile da accettare, quando hai una coppia d’attacco come quella formata da Ortega e Montella.

L’anno successivo vede il suo trasferimento a Parma , dove ritrova l’ex compagno Hernan Crespo e un tecnico come Malesani al quale piace decisamente il suo modo fantasioso di interpretare il calcio. Ma Ortega è già dentro un tunnel. Nel dicembre del 1998 era stato arrestato a Genova perché, completamente ubriaco, si era reso protagonista di una rissa fuori da un locale notturno. Ortega non sta più bene, beve e soffre la nostalgia, decide quindi di scappare ancora e di tornare a casa, al River.

La Vuelta.

Un vita fatta di alti e bassi, di tanti sbagli ma Ortega è pienamente consapevole che nient’altro e nessun’altro al di fuori del suo pubblico di casa riesce a renderlo se stesso . Un’atmosfera calorosa come quella del River resta una delle più stupefacenti del mondo del calcio. Sentirsi così amato ti porta diritto in paradiso.

Il biennio 2000-2002 è senza dubbio il migliore. Torna al River che vanta campioni del calibro di Saviola, Aimar, D’Alessandro e Cavenaghi. È protagonista di uno dei Superclásicos più ricordati dal popolo millonario nei tempi recenti: il 3-0 del Marzo 2002 alla Bombonera. Quello del “Burrito” è un vero e proprio show di fantasia ed estro:  domina il campo, spacca la partita ogni volta che tocca palla, batte la punizione da cui ha origine l’1-0 di Cambiasso, smarca Rojas per la consueta “vaselina” del trionfo e in generale disegna calcio per gli interi 90′ minuti .

Cosi Orteguita sembra aver ritrovato finalmente il sorriso . E’la massima espressione del calcio argentino, la nazione lo venera come un nuovo dio del calcio e proprio in quell’anno torna ad essere  campione col suo River, in un Clausura 2002 che sembra tanto l’antipasto della grande abbuffata.

Di lì a poco però le cose prenderanno pieghe ben diverse, e Ariel sprofonda lentamente in una crisi economica dal sapore amaro.

Il mondiale del 2002 si rivela un totale fallimento per lui e la nazionale argentina . “Come è stato possibile?” si domandano in tanti  che una delle Nazionali migliori e più accreditate,  guidata da uno dei tecnici più blasonati del momento sia uscita in modo così sconcertante nella fase a gironi.  Una cosa per cui ancora oggi Marcelo Bielsa non riesce a trovare pace .

In preda alle necessità economiche ,si trova costretto ad emigrare nuovamente in una realtà come quella del Fenerbahce ( Turchia) , fin troppo lontano e distaccata dai suoi canoni standard di interpretazione calcistica. Un contratto da capogiro per quanto riguarda il lato economico, ma anche l’inizio della sua triste fine. Istanbul non è affatto un posto per lui, il cibo le abitudini, la mentalità non fanno altro che accentuare la nostalgia della sua tanto amata Argentina. Chiaramente scappa, ma lo fa nel modo peggiore possibile: a Febbraio del 2003, dopo una partita giocata con la Nazionale ad Amsterdam, torna a Buenos Aires rompendo unilateralmente il vincolo con il Fenerbahce, che reagisce denunciandolo alla FIFA. La risposta è una multa da oltre 10 milioni di dollari e una sospensione dall’attività professionistica. Sommerso dai debiti e senza calcio, a ventinove anni Ariel Arnaldo Ortega è semplicemente finito.

C’ è ancora una figura però, un uomo,  disposto a dargli l’ennesima chance :  Américo Gallego. Ortega è perso, non gioca da oltre un anno ed è praticamente in bancarotta, ma Gallego convince il Newell’s Old Boys, storica società di Rosario ad acquistare la proprietà del suo cartellino sperando in una rapida resurrezione. Il club riesce a sistemare la complicata vicenda con il Fenerbahce e si assicura le prestazioni del fuoriclasse.  Nell’ Agosto del 2004 Ariel è di nuovo in pista. I piedi sono sempre gli stessi, la testa anche. Ma è cambiato il suo volto. È cambiata l’espressione. Ortega è di nuovo vivo, ma non è felice. Gioca, segna e vince, regalando  ai suoi domeniche di calcio fantastico. Però è anche visibilmente incattivito, sembra covare rabbia, contro non si sa chi. I sorrisi sono pochi e i gesti di stizza tanti.

In due anni con il Newell’s Ortega dimostra di essere ancora un calciatore. Di potersi ancora permettere un gran finale di carriera. Perché il suo pensiero fisso è sempre quello: le tribune del Monumental.

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Riesce a tornarci nel 2006 , ma quello che scende in campo è un Ortega che è già sprofondato nel tunnel dell’alcolismo. Forse neanche più il calcio riusciva a colmare quella sensazione di vuoto interiore che solo l’alcool sembrava esser in grado di fare. Ammette pubblicamente di essere alcolizzato e depresso;  da lì in poi di fatto sarà un continuo susseguirsi di cure mai portate a termine.

Il suo ritorno, appena un mese dopo l’ammissione della sua dipendenza è qualcosa che attualmente si trova scritto indelebilmente nelle pagine più nostalgiche del calcio sud americano. Quel Clásico col San Lorenzo, quella vaselina raccontata con tutto l’amore del mondo da Costa Febre. Le sue parole sono un’inno all’amore, all’ affetto che abbraccia direttamente un campione che non ha mai smesso di regalare gioie e magie al suo pubblico.

Poi, però, nel 2009 ha avuto l’ennesimo crollo esistenziale, culminato nella fuga a Mendoza, all’Independiente Rivadavia, squadra di seconda divisione che gli offriva un contratto a patto che seguisse un trattamento disintossicante. Nove mesi di esilio, in cui non tutto è andato benissimo ma nei quali ha ritrovato la motivazione e la condizione per tornare a mettersi la maglia dei millionarios, nel 2010.

La fine di una carriera travagliata.

Tutto però va ormai a rotoli.  Nel febbraio del 2010 arriva un’altra volta tardi all’ allenamento e completamente ubriaco: il tecnico Leo Astrada e il vice Hernan Díaz ,suoi ex compagni nel grande River di inizio anni ’90  lo fanno fuori dopo averle provate tutte.

A maggio gioca in Nazionale la sua ultima partita, contro Haiti, in un’amichevole in cui il CT Maradona voleva semplicemente effettuare alcuni test in vista del Mondiale in Sudafrica. Non vestiva l’Albiceleste da sette anni, gioca un’ora carica di stile e nostalgia. Ortega mostra Ortega alla sua Nazione per l’ultima volta, poi esce di scena. Con quel sorriso dolce e depresso, picaresco e infantile. Perso dietro al sogno di un ultimo Mondiale che non potrà mai appartenergli.

Esce così di scena, salvo tornarci per l’addio ufficiale.

  “…Creo que todos jugamos porqué nos gusta el fùtbol, amamos el fùtbol porqué lo llevamo en el alma y en el corazòn …”     

ARIEL ORTEGA. 

Ariel Arnaldo Ortega è un uomo che nella sua vita non è mai riuscito a trovare la felicità, ma che non ha mai smesso di darne al suo adorato River Plate. E in qualche modo anche a tutti quelli che non hanno potuto fare a meno di amarlo.

Francia -Croazia : 20 anni dopo dai mondiali transalpini. Quando le stelle erano Suker e Zizou.

Si parla di una storia che viaggia dentro la storia. Il tempo corre veloce e i ricordi conservano quello che le lancette tentano di cancellare. Siamo arrivati in fondo ad un mondiale, che a dir il vero forse non ha avuto  lo stesso sapore dei precedenti. Vuoi un po’ per la delusione rimediata precedentemente a causa della non qualificazione degli azzurri, vuoi dall’altro lato perché ci è sembrato fin troppo banale che nessuna delle matricole sia riuscita  in qualche modo a dargli un sapore diverso.

 

Mi riferisco in particolare a quelle che nelle edizioni precedenti erano considerate le “underdogs” ma di fatto erano riuscite a sorprenderci ; un po’ come il Senegal di Bouba Diop e compagni in Korea and Japan 2002 che giunse fino ai quarti di finale , la stessa Turchia che terminò la medesima edizione al terzo posto o addirittura come la Jamaica dei “Baristi” del 1998 alla quale ho dedicato uno dei miei precedenti scritti.

Il 1998 è proprio l’anno di riferimento che in qualche modo si ricollega al mondiale attuale per l’incontro che domenica vedrà opposte in finale due formazioni ( Francia e Croazia), che già si erano affrontate proprio in quell’edizione ospitata dai transalpini , in una semifinale da cardiopalma.

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Francia ’98 fu diciamo un mondiale di svolta , che portò tuttavia alcune novità rilevanti nel palcoscenico internazionale. Di fatto la FIFA allargò il mondiale a 32 squadre e  introdusse : il golden goal che sanciva il vincitore oltre i tempi regolamentari, l’espulsione per il fallo da tergo, la possibilità di effettuare 3 sostituzioni e per concludere i pannelli luminosi per indicare i minuti di recupero.

Per i francesi si tratta della seconda volta a distanza di sessantanni. L’organizzazione le è stata assegnata nel 1992 dal Comitato Esecutivo UEFA di Zurigo, che ha preferito la candidatura transalpina a quella delle contendenti Marocco e Svizzera.

Giusto per darvi un infarinatura generale citando un po’ di storia il 1998 è in generale un anno di svolta non solo per il mondo del calcio ma anche per quello della musica per esempio. Infatti se fino ad ora la musica house è la regina delle discoteche, sono i rave party a rappresentare il fenomeno urbano del momento, con orde di giovani in rivolta che occupano vecchi stabilimenti industriali in disuso al suono della musica techno, rappresentazione plastica dell’onda contro-culturale del decennio che sta per concludersi. 

Intanto mentre sul fronte delle piattaforme di rete , due venticinquenni studenti di Standford, Larry Page e Sergej Brin, stanno per fondare Google (che diventerà il più famoso motore di ricerca sul web) , il tema della privacy è al centro del dibattito pubblico da qualche mese in cerca di una definizione delle modalità  su come e dove l’informazione viene diffusa.

Anche il cinema ovviamente presenta le sue novità. Infatti mentre l’Oscar è assegnato a Titanic, di James Cameron, l’uragano pulp di Quentin Tarantino sconvolge il mondo del cinema. Le Iene, Jackie Brown e, soprattutto, Pulp Fiction, diventano pellicole capaci di creare una nuova estetica regalando un’accezione postmoderna al termine pulp. Immagine correlata

Dopo questa breve parentesi su alcuni cenni storici dell’anno ’98 torniamo però dove ci eravamo lasciati , focalizzando la nostra attenzione sul mondiale francese. Più precisamente prendiamo in considerazione le due rispettive formazioni : La Francia di Zizou Zidane , miglior giocatore del torneo e la Croazia di Davor Suker , assoluto vincitore della classifica marcatori di quell’edizione.

 

La Francia dal canto suo vanta molte altre personalità di rilievo quali Barthez tra i pali, lo stesso Blanc e i vari Deschamps, Henry , Djorkaeff, guidata da un c.t Aimé Jacquet che punta molto sulla tattica del  contropiede: veloci ripartenze sugli esterni e una cura assai meticolosa della fase difensiva. I transalpini forti delle loro qualità chiudono il gironcino con 9 punti , dopo aver passeggiato  con Sud Africa e Arabia Saudita e aver battuto di misura i cugini europei della Danimarca. Agli occhi di tutti traspare chiaramente una nazionale del tutto rivoluzionata rispetto a quella delle precedenti edizioni , molto più solida dal punto di vista tecnico- tattico e soprattutto , sotto la luce della sua stella più luminosa Zinedine Zidane,del tutto determinata a vincere.

Dall’altro lato la Croazia , sicuramente una delle sorprese del torneo per quanto poi fece vedere. Alcuni nomi di rilievo li ritroviamo nei vari Zvonimir Boban , Goran Vlaovic ,Davor Suker ma la percentuale di questi era niente comparata a quella delle big e qui mi riferisco in particolare ad Argentina, Olanda, Inghilterra e la stessa Francia.

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La formazione guidata da C.T Miroslav Blažević chiude con un secondo posto nel girone, alle spalle degli argentini, dopo aver perso di misura con quest’ultimi e superato negli altri due incontri rispettivamente Jamaica e Giappone.

Un mondiale che fino ad adesso aveva  già entusiasmato. Forse proprio la magia dell’atmosfera che si respirava in quell’estate del 1998 accompagnata dalle note musicali del singolo di Riky Martin La Copa de la vida contribuiva a renderlo il mondiale della svolta , uno di quei mondiali che non smetterai mai di ricordare . Peccato in fondo per gli azzurri e quella maledetta traversa .

Si vola agli ottavi , dove la Francia   spedisce a casa il Paraguay. Dopo gli estenuanti tempi regolamentari terminati in parità , trova il sigillo qualificazione ai supplementari con Laurent Blanc proprio con la regola del goden gol  , che getta nello sconforto più totale Chilavert e compagni. Francia ai quarti.

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La Croazia affronta una Romania che vola sulle ali dell’entusiasmo , vista la centrata qualificazione agli ottavi ( i giocatori della nazionale rumena in occasione dei festeggiamenti si erano tinti i capelli di giallo ) . Agli ottavi però le cose vanno diversamente. Basta una rete su penalty del solito Suker per decidere chi andrà avanti. Croazia ai quarti. Hagi e compagni costretti a rifar le valige.

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Siamo ai quarti di finale, ed è il momento di parlare di quella partita stregata ,che ancora oggi ricordarla ci lascia tanto amaro in bocca. Gli azzurri uscirono di scena proprio contro la nazionale di Zizou. Noi tutti ci ricordiamo chiaramente come andarono le cose, forse per un attimo avevamo pure pensato di passar il turno,  se solo quella palla girata al volo da Roby Baggio al 12’del primo tempo supplementare  si fosse insaccata.

Poi i calci di rigore e quella maledetta traversa di Gigi di Biagio. Il sogno azzurro si interrompe ai quarti.

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La Croazia d’altro canto gioca la partita della vita contro i tedeschi. I croati mettono in scena una delle più belle prestazioni viste fino ad adesso e piegano la Germania 3-0. A sorpresa la nazionale balcanica raggiunge un’incredibile e  storico traguardo chiamato SEMIFINALE.

E dunque adesso, siamo arrivati finalmente dove volevamo arrivare. Alla partita che in qualche modo ha ispirato la mia penna. Forse non solo la mia , quella di chi  come me da buon nostalgico davanti ad una finale di questo calibro ( mi riferisco al mondiale in corso) non poteva davvero rimanere indifferente. Esattamente vent’anni dopo , è di nuovo  Francia -Croazia.

Non sto a dilungarmi sul come andarono le cose in quell’8 Luglio nella semifinale al  Saint Denis . I più nostalgici ovviamente ricorderanno per filo e per segno quella partita. Vantaggio croato con il solito Suker ad inizio ripresa, e pareggio immediato di Thuram. Al 69′ ancora Thuram rovescia le carte in tavola e fa 2-1 con una bordata da fuori che si insacca  nell’angolino più lontano.

La spuntarono i Francesi tra le lacrime di Barthez ,la gioia di Zizou vero leader e trascinatore dei transalpini anche in finale. Sua infatti la doppietta che portò gli uomini di Jaquet  al doppio vantaggio prima del definitivo sigillo di Petit nel 3-0 rifilato al Brasile.  Per i croati il mondiale francese fu come scalare una dura e faticosa montagna.Purtroppo i sogni della Croazia si spensero poco prima di raggiungere quella vetta illusi dal momentaneo vantaggio del loro goleador  Davor Suker. Per certi aspetti forse avevano già compiuto un ‘impresa. Nessuno mai avrebbe scommesso su di loro prima dell’inizio di quel mondiale. E quel terzo posto conquistato nella finalina di Parigi contro gli olandesi ne fu la riprova a testimonianza ancora una volta del loro valore.

Domenica a Mosca le due formazioni si affronteranno di nuovo.Per la prima volta nella storia dei mondiali , in una finale.  Sarà il talentuoso Modric contro il gigante Pogba  . Fa quasi effetto a distanza di vent’anni pronunciare oggi nomi di atleti odierni che pur quanto di livello, non hanno niente a che fare con la tua giovane infanzia . Ma non fraintendetemi,c’è una storia che viaggia dentro la storia e del resto i mondiali sono un’evento unico che unisce il mondo fin da sempre.

Potrebbe essere l’occasione per una fatidica rivincita per i croati. O più semplicemente solo la conferma che davvero con i francesi non si scherza. Comunque vada sarà un “nostalgic day ” per tutti quelli che seduti davanti al televisore  in un modo nell’altro rievocheranno i ricordi di quell’ 8 luglio della lontana estate del’98. La storia è strana e a volte  si ripete. Cosi la nostalgia irrompe ed evidenzia la bellezza del momento.  Allora mettetevi comodi e lasciate che sia la  nostalgia del momento a trasportarvi con la mente ancora una volta alle emozioni di quella semifinale.

E’ tempo di scendere in campo . E’di nuovo tempo di Francia  vs Croazia.

com

 

 

 

 

Una valigia piena di ricordi : Bora Milutinović Il C.T giramondo.

INTRODUZIONE.

Quando ci troviamo davanti a personaggi di questo calibro, limitarsi a  raccontare semplicemente le avventure della loro vita può sembrare  diminutivo.

Quello che sarebbe interessante fare è cercare di entrare nella psicologia che avvolge casi incredibilmente eccezionali come questo e capire cosa li caratterizza nella loro sfera privata, cosa li porti ad essere quelli che realmente sono, divenendo prima icone di fama mondiale e finendo  per poi essere ricordati in una delle pagine di sport più nostalgiche di sempre.Risultati immagini per milutinovic

Velibor Milutinović , meglio conosciuto con lo pseudonimo di  Bora può di gran lunga esser considerato un cittadino del mondo se analizziamo quello che è stato il suo profilo da C.t . Ha giocato ed allenato in 14 paesi del globo , solo l’Oceania resta l’unico angolo remoto del Pianeta dove Bora non ha coltivato nessuna esperienza. Parla ben 5 lingue : serbo, inglese,spagnolo,francese,  italiano  , qualche parola in russo e in mandarino .Un uomo nel quale si fondono molteplici culture , che ha fatto della propria vita un romanzo di avventura , un libro di viaggi con tante pagine da raccontare.

Il francese Morand scriveva:

’Viaggiare è essere infedeli. Siatelo senza rimorsi. Dimenticate i vostri amici per degli sconosciuti’’;

E chi meglio di Bora ha rimasticato e fatto sua questa massima venata di cinismo, guardandosi bene dal voltarsi indietro e rimuginare sul passato, versando magari lacrime amare su ciò che non è stato e invece poteva essere?

VITA E PRIMI PASSI NEL CALCIO. 

 

Milutinović nasce a Bajina Basta una piccola cittadina di montagna ai confini tra Serbia e Bosnia Erzegovina.

“Non ho mai conosciuto mio padre Orzad, caduto durante la Seconda Guerra Mondiale, combattendo per i partigiani di Tito. Un anno dopo è morta anche mia madre Darinka, se la portò via la tubercolosi.”

Cresciuto con la sorella Milena e i fratelli Miloš e Milorad iniziò a viaggiare sin da piccolo trasferendosi ad abitare dagli zii a Bor , un piccolo paese a 40 km dal confine tra Bulgaria e Romania.

Quando ero bambino, ogni 29 novembre, festa della Repubblica, vestivo il foulard rosso e la Titovka, il cappellino blu, e sfilavo con i Pionieri di Tito. Bei tempi, la Jugoslavia era un paese unito e orgoglioso. L’infanzia l’ho trascorsa giocando a scacchi e a calcio per strada. 

Il calcio si conferma una delle sue più grandi passioni fin da piccolo. Prima di scegliere il destino da allenatore giramondo, Bora era un centrocampista. Un buon centrocampista, che, grazie al suo dono con il pallone tra i piedi, può lasciare la sua terra e iniziare a fare quello che gli piace davvero.

Giocavo mediano, dei tre ero il meno talentuoso, ma ho comunque giocato in nazionale Under-18…” 

Come i fratelli , cresce nel Partizan di Belgrado, partecipando a quello che è uno dei tornei giovanili internazionali più importanti di Europa : il celebre torneo di Viareggio.

 “Come Miloš e Milorad, anch’io sono cresciuto nel Partizan e una delle mie prime esperienze all’estero fu il torneo di Viareggio, dove ho giocato contro il Milan di un certo Giovanni Trapattoni.”

La vetrina che la maggiore espressione del calcio serbo gli concederà suscita ben presto gli interessi del Fussball club Winterthur di Zurigo. Intorno alla metà degli anni Sessanta decide per tanto di lasciare la Jugoslavia per la Svizzera. Lui stesso è del tutto inconsapevole sul fatto che nella sua terra natale non vi tornerà più. Successivamente onorerà i colori di Monaco, Rouen e Nizza prima di intraprendere una decisione spiazzante: non sentendosi ancora pronto per appendere gli scarpini al chiodo sceglie come ultimo giro di giostra il calcisticamente insolito Centro America, precisamente Città del Messico. Nella Ciudad, oltre a vestire la casacca dei gloriosi Pumas, Bora troverà l’altro grande amore della sua vita e il solo dal quale non ha tentato di smarcarsi: una donna, messicana e benestante, con cui in breve tempo deciderà di unirsi in un destino comune.

DA GIOCATORE A CITTADINO DEL MONDO. 

Col terminare della sua attività da atleta, Milutinović decide di intraprendere il percorso che lo ha reso il ” cittadino del mondo” che oggi conosciamo. Una valigia sempre pronta, da una panchina all’altra a giro per il mondo . Un’avventura sempre nuova da intraprendere e un mucchio di sogni nel cassetto da realizzare. Un eterno viaggiatore mai stanco della sua professione.

Nel 1983 ,dopo aver precedentemente guidato il club dei Pumas (nel quale aveva militato come giocatore) approda alla guida della selezione Nazionale. Agli albori degli anni ottanta il Messico non è ancora il paese calcio-centrico che è ormai presenza fissa nelle competizioni internazionali da oltre tre decadi, né tanto meno quella fucina di talenti da cui hanno spiccato il volo Cuauhtémoc Blanco , Dos Santos o il Chicharito Hernandez; è il Mondiale del 1986 e si gioca ancora tra i confini amici.Risultati immagini per milutinovic messico 86

L’attesa attorno ai messicani si capta nell’aria e a confermarlo sono i 110.000 cuori palpitanti all’unisono nel leggendario Azteca, teatro della gara d’esordio tra Messico e Belgio. I ragazzi di Bora non deludono le aspettative, imponendosi con un meritato 2 a 1. Complici anche le avversarie di non elevatissima caratura (Paraguay e Iraq le altre due contenders) il superamento del girone è un gioco da principianti.Negli Ottavi a cedere sotto la spinta di un intero popolo è la Bulgaria, che in questa edizione sta mettendo le basi per l’exploit impronosticabile di Usa ’94. Alla primissima esperienza, la ventata di passione che il serbo porta con sé è già sinonimo di successo: il Messico torna ai quarti di finale. A fermarne purtroppo la corsa arriva la più esperta, quadrata e blasonata Germania, capace poi di giungere sino in finale. La disputa si gioca sul filo dell’incertezza e a condannare i padroni di casa sono i tiri dagli undici metri. Si tratta d’una battuta d’arresto dal sapore dolce.Il CT lascia il Messico da eroe, per accettare l’incarico di due squadre di club: San Lorenzo prima, Udinese poi.Saranno però due parentesi poco significative , quasi fossero due ostacoli alla sua eterna ricerca dell’insolito.

SI VOLA IN COSTA RICA. 

Valige pronte. Questa volta la destinazione è ancor più atipica. A richiedere le attenzioni di Bora è un’isola ispanica del centro america: Il Costa Rica. Fin dalle prime dichiarazioni Pre-esordio Mondiale ( Italia’90) Bora dimostra di credere fortemente in questo gruppo arrivando ad esaltare le enormi chance dei suoi di passare il turno.

Milutinovic e l'impresa "genovese" della Costa Rica: «Ferraris, maglie Juve  e pesto per le nostre Notti Magiche» - Il Secolo XIX

Nell’incredulità più totale, i costaricani superano prima la Scozia , poi la Svezia candidandosi di diritto a sorpresa della manifestazione. Milutinović non pare per nulla sorpreso, anzi minimizza sfoderando il suo classico sorriso placido; d’altronde, per chi è nato per le imprese semi-impossibili, portare ventidue ragazzi che credono ciecamente nelle strategie del proprio mentore agli ottavi di Finale di un Campionato del Mondo, è cosa da poco.L’ostacolo successivo si chiama Cecoslovacchia, compagine dalla tradizione ormai consolidata: non bastano però l’entusiasmo della nazione più felice del globo a fermare l’avanzata di Skuhravy e compagni, che passeggiano con nonchalance sui centroamericani. L’avventura spensierata finisce con l’insperato traguardo delle top 16; ancora una volta Milutinović è salutato al rientro come una sorta di santone salvifico.

Il mondo comincia a notarlo, la figura carismatica proveniente da Bajina Basta ha dimostrato di saperci fare , tant’è che sono gli Stati Uniti a volerlo come timoniere in vista della successiva edizione ospitata proprio dagli yankee.

NELLA TERRA DI COLOMBO. 

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In una terra poco avvezza al pallone di cuoio la massima aspirazione è superare le colonne d’Ercole delle fasi a gironi; anche questa volta, il nostro eroe centra l’obbiettivo, strappando la qualificazione per il rotto della cuffia in virtù di una buona differenza reti nel confronto tra le terze classificate. Gli States saranno eliminati ai quarti di finale contro un Brasile più cinico e determinato che andrà a segno con la stella Bebeto. Nonostante l’eliminazione dal torneo, Bora raccoglie comunque i grossi meriti di aver contribuito a gettare le basi per la diffusione del soccer  rendendolo uno sport in via d’espansione all’interno dei confini statunitensi, visto che nell’era pre-mondiale Stati uniti e calcio non sono mai andati cosi d’accordo.

UNA TERRA PIENA DI MONDO. 

Terminata l’avventura a stelle e strisce, neanche il tempo di fare i bagagli ed arriva la chiamata dal continente Nero. Ad alzare la cornetta è la Nigeria. Il materiale che il nuovo coach da un giorno all’altro si trova tra le mani ha impresso a lettere cubitali ‘’maneggiare con cura’’: un gruppo di ragazzi ancora da formare caratterialmente parlando ma se ben amalgamati, avrebbe le potenzialità per sovvertire le gerarchie, portando la scuola africana sul tetto del mondo.I nomi in rosa  sono incredibili Babayaro, Babangida, Finidi, senza trascurare Kanu, Taribo West e il funambolico Jay-Jay Okocha.

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C’è bisogno però dell’esperta mano di un traghettatore rodato, di un inflessibile maestro che prenda per mano queste potenziali stelle e le faccia marciare verso un unico obbiettivo. A Francia ’98 le cose iniziano nel migliore dei modi; nella gara d’esordio le Aquile piegano la Spagna 3-2 in una gara rocambolesca all’insegna dello spettacolo e si ripetono con la Bulgaria, stavolta di misura con un semplice 1 a 0. La sconfitta col Paraguay , resta ininfluente ai fini della qualificazione dei Nigeriani.

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Al turno successivo purtroppo le speranze e i sogni delle Super Aquile si infrangeranno nel muro Danese. Quello che è mancato alla nazionale africana non sono stati i mezzi fisici o tecnici ma bensì l’equilibrio tra i reparti e la scarsa inesperienza davanti agli appuntamenti di spessore. Dopo la prima frazione terminata con gli Scandinavi avanti per 2-0 ,nella ripresa i danesi dilagano. Una rete da cineteca di Sand e il poker calato dal futuro milanista Helveg, contribuiscono a render ancor più ampio il divario. L’entusiasmo di un gruppo di ragazzi salvato grazie al calcio. Da un’esistenza soffocata dagli stenti, la voglia di regalare alla propria gente alcune briciole di un riscatto ancora troppo lontano non bastano: la Nigeria è eliminata. Fine della corsa.

VERSO LA MURAGLIA CINESE E OLTRE. 

Valige di nuovo pronte. Il paradosso del paese più popoloso del Mondo, con ben quasi un miliardo e mezzo di abitanti, è la totale estraneità al gioco del calcio. Il livello della rosa, pressoché inferiore a quello dei campionati dilettantistici di mezza Europa, non lascia presagire nient’altro se non qualche sgambata ai limiti del ridicolo.Destinazione Cina.

Ai calciatori cinesi mancano le basi di tattica e tecnica, Bora lavora a fondo, organizzando decine di amichevoli contro nazionali di blasone.Guidare la Cina ai Mondiali sembra una missione impossibile. Quando gli chiedono le possibilità di qualificazione, Bora risponde che su 40 nazioni asiatiche, almeno 10 sono meglio della Cina ma lui avrebbe comunque ottenuto uno dei due posti disponibili. La prima fase di qualificazione fila via liscia, anche per la debolezza delle avversarie (Cambogia, Indonesia e Maldive). Milutinovic non capisce il cinese e forse è meglio così, visto che viene duramente contestato durante una partita casalinga contro la Cambogia, sconfitta “solo” 3-1. Il secondo e ultimo turno mette di fronte i cinesi ad avversarie più insidiose: Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Uzbekistan.Il cammino degli uomini di Bora è un trionfo: 6 vittorie, 1 pareggio e 1 sconfitta, nell’ultima e ininfluente gara in Uzbekistan. Il 7 ottobre 2001 la Cina si qualifica aritmeticamente ai Mondiali (la prima ed ultima per la Repubblica Popolare Cinese)  e quel giorno mezzo miliardo di persone guarda la partita alla TV, superando di quattro volte l’audience del Super Bowl.

Bora è diventato un eroe nazionale, i tifosi acclamano il suo nome “Milù”, vista l’impossibilità di pronunciare la erre. Ogni uscita pubblica è un bagno di folla, nel febbraio 2002 visita la Grande Muraglia cinese assieme a Pelè; Bora approfitta della popolarità per arrotondare. Sponsorizza un po’ di tutto: bevande energetiche, lettori DVD, condizionatori d’aria, liquori di riso, scrive persino un’autobiografia “Zero Distance”, diventato un best-seller. In Cina la febbre Mondiale è alle stelle, in molti credono alla vittoria del Mondiale.

La manifestazione sarà invece solo un’inusuale passerella, con le tre sconfitte, le nove reti subite senza realizzarne nemmeno una; ma, fatto assolutamente atipico nella conservatrice cultura asiatica, a rimanere impressa negli annali del calcio, sarà per sempre il nome di quello strano europeo.

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IL PROFESSORE CHE INSEGNAVA AL MONDO. 

Altre genti e culture hanno negli anni avuto la fortuna di servirsi del suo sapere e, viceversa, a lasciarsi studiare e compenetrare dall’antropologo della panchina. Sì, perché da una figura simile, si prende e al contempo si dona un pezzo del proprio patrimonio, della propria essenza. Honduras, Giamaica e infine Iraq, le ultime tappe dove ha continuato il lavoro di una vita.

Non è mai facile porre dei limiti a persone cosi, altrettanto difficile quindi dire se il viaggio di Bora , il suo eterno peregrinare troverà mai una destinazione definitiva. Il cittadino del mondo che ha insegnato calcio a mezzo globo impugna di nuovo la sua valigia piena di ricordi pronto a ripartire. In attesa di un nuova avventura , di un nuovo viaggio da intraprendere ,nuove culture da conoscere e nuovi orizzonti da scoprire. Perché Cittadini del mondo si nasce , non si diventa. 

Djalminha , il brasiliano del futebol moleque.

Quando si fa riferimento ai talenti brasiliani e al loro modo estroso di esprimere ed intendere il calcio si percepisce spesso qualcosa di sovrannaturale, che  in qualche modo è in grado di sconvolgere i piani , gli schemi avversari con una magia tirata fuori da quel cilindro che solo pochi possiedono.

Dentro questa cerchia rientrano ovviamente i vari Ronaldo, Romario Ronaldinho , Rivaldo .

Poi c’è lui uno di quei talenti che avrebbe potuto fare e avere quasi tutto, ma che ha soltanto scalfito la superficie del successo e del riconoscimento delle sue innate qualità: Djalma Feitosa Dias meglio conosciuto come Djalminha. 

L’interprete di un calcio di pura fantasia,un istintivo del gioco capace di giocate incredibili , di cose a metà tra Norman Bates e Francis Bacon. Insieme ad Edmundo rimane probabilmente il talento più incompreso degli ultimi vent’anni.

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Djalma Feitosa Dias è rimasto sostanzialmente celebre ad una nicchia di pubblico per il periodo in cui ha indossato la maglia del Deportivo la Coruña, cinque anni nei quali ha avuto modo di agire all’interno di un contesto; il più ideale possibile per le sue caratteristiche, sia tecniche che attitudinali. Allo stesso tempo però la sua discontinuità ha fatto si che il suo ricordo in qualche modo sia stato alleggerito , forse per quel suo carattere anche fin troppo irascibile e presuntuoso che lo contraddistingueva.

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La stessa carriera di Djalminha è un inno all’irregolarità: dei suoi 16 anni di professionismo si ricordano soltanto sparute gemme tecniche, folli invenzioni, sghembe movenze circensi e una diffusa sensazione di estraneità verso il concetto apicale di collettivo, nonostante un clamoroso titolo di campione di Spagna col Depor.

Djalminha era così, genio e sregolatezza, viveva  tra estro e pura follia , la più classica delle rappresentazioni del calcio di strada. Dopo gli anni nella madre patria, dove si aveva la netta impressione di trovarsi davanti ad un talento purissimo : un sinistro rarefatto, incontenibile per le sue innumerevoli sfaccettature, un genietto di strada trasportato direttamente al massimo livello del professionismo senza aver perso alcun tratto genetico del suo stile di gioco durante il percorso .Accetta a 25 anni una chiamata inaspettata dal Giappone, a Shimizu. Che Indubbiamente la scelta sia stata legata al peso economico non è neanche in discussione, forse però dietro c’era anche ben altro , qualcosa che suona allo stesso tempo come una disperata fuga da se stesso.

La sua natura e il suo talento sono i  due opposti di un soggetto difficilmente inquadrabile. Djalminha è uno di quei portatori sani del futbol moleque  ( il calcio fanciullo) .Un modo di porsi sia in campo che nella vita che richiama alla mente la spensieratezza e la gioia infantile affiancate da quel giusto grado di istintività che sgorga e trae legittimazione direttamente dal calcio di strada , da quel tipo di calcio che in Brasile ogni bimbo fin da piccolo pratica inseguendo il sogno di una vita.

Dopo di lui soltanto Neymar è stato ed è  capace di creare invenzioni simili con la palla e di avvicinare un intero popolo a quella natura naif e ludica che sta alla base del calcio inteso come gioco. Ma Neymar è al tempo stesso un fuoriclasse affermato, un brand globale, un professionista esemplare, un’icona dell’establishment pallonaro: la raffigurazione in calzettoni dell’Ordem e Progreso. Tutte dinamiche che al contrario, Djalminha ha sperimentato su di sé.

Dopo il pallone d’oro brasiliano del ’96, vinto nonostante un campionato paulista con più ombre che luci per la squadra di Scolari, Djalminha arriva a La Coruña . È in Galizia, terra di confine e asprezze, che il genietto di San Paolo riesce per la prima volta a lasciare il segno a 27 anni. In un contesto che non vive di forti pressioni , il brasiliano riesce ad ambientarsi e a dare progressivamente sfogo alla sua personale visione del calcio: i suoi dribbling, i suoi tricks assurdi, le sue irriverenti, barocche lambretas appartengono al pubblico che paga il biglietto di ingresso al Riazor.

15 secondi che ci consegnano un master in swag tenuto da Djalminha sui campi della Liga.

Eppure Djalminha ha fatto appena in tempo a lasciare un ricordo nitido di sé, proprio grazie al fatto di essere un creativo puro in un’epoca di passaggio, quella tra la fine dei ’90 e l’inizio degli anni zero, mentre il calcio si espandeva vertiginosamente a fenomeno globale, mediatico.

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Un giocatore che, all’apice della carriera, era visto quasi come un supersub da utilizzare se il piano gara avesse trovato complicanze o se si fosse rivelato errato. Djalminha era l’elemento instabile, la materia altamente infiammabile che poteva incendiare il campo, sempre se in giornata o forse meglio dire se in pace con se stesso.

Esiste poi anche una componente di scherno, di manifesta superiorità da sbruffone da cortile nel suo gioco che lo accomuna ad altri freak assoluti come Denilson. L’estro e la sua inventiva in campo erano i capi di un filo conduttore che fin da sempre lo ha caratterizzato in tutta la sua sregolatezza. Uno per cui perdere completamente la testa: disperarsi per scelte incomprensibili o esaltarsi per giocate non riproponibili a certi livelli e, soprattutto, in certi contesti.

E’ contro i colossi del calcio , le grandi di Spagna che l’anima candida di Djalminha si materializza come una personalità irrefrenabile, dando libero sfogo al suo futbol moleque. 

La sua capacità di controllare la palla in spazi inesistenti,di saltar l’avversario in un fazzoletto,  di riscrivere le regole del controllo orientato con primo dribbling annesso e di materializzare laser-pass spesso illeggibili per i compagni lo hanno portato ad esser fin troppo amato dentro i confini del Riazor. C’è chi lo ha ribattezzato Genio, El Mago, O Dios.  Poco importava di quel suo carattere così irruento e fin troppo irascibile , davanti a giocate simili  si applaude e giù il cappello.

Chiudere un triangolo al limite dell’area, facendolo in rabona con annesso tunnel al centrale in uscita e mandando in porta il compagno: ✓.

Djalminha è un’opera barocca, ricca di zelo manierista, che si muove all’interno di un contesto controllato e fin troppo legato a schemi che ostacolano  quel suo modo a colori di intendere e interpretare il calcio.

In definitiva, si può decidere di rifiutare Djalminha, pensare che rimanga un freak o uno sbruffone da garbage time; oppure abbracciarlo nelle sue variegate sfaccettature e comprendere fino in fondo la sua natura di splendido incompiuto, di stravagante anomalia prestata al calcio.

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Il calcio nelle Favelas: Inseguendo un sogno tra degrado e povertà.

 

Immagine correlataLe favelas sono luoghi misteriosi. Talvolta è  fin troppo rischioso addentrarvisi specialmente se non si è del posto. Enormi baraccopoli che sorgono generalmente ai confini periferici delle maggiori città. Abitazioni improvvisate spesso composte da scarti di immondizia e coperture in Eternit. Inutile dirvi che in luoghi come questi , criminalità e degrado convivono insieme ormai da anni. La maggior parte delle attuali favelas crebbe negli anni settanta, quando il boom dell’edilizia dei quartieri più ricchi spinse un gran numero di lavoratori ad una sorta di esodo dagli stati più poveri del Brasile verso Rio de Janeiro in cerca di fortuna. Vasti allagamenti nelle aree povere a bassa quota di Rio contribuirono inoltre a far muovere la gente verso le favelas, le quali si trovano sui versanti collinari della città.

Nonostante tutto ciò , fin da sempre all’interno di queste si nascondono sogni troppo grandi, così si sogna in grande fin da piccoli. Ci sono milioni di bambini che ogni giorno prendono a calci una palla fatta di stracci imitando il loro idolo: Ronaldinho, Rivaldo, Ronaldo con la speranza di poter calcare in un tempo futuro lontano gli stessi palcoscenici di questi campioni.  Si grida ” Goooooooooooooooll ” con la vocale ” O” che sembra non finire mai, quando il pallone varca la linea di quella porta sgangherata e spesso fatta coi panni che si avevano addosso. Si gioca per strada , nei vicoli , per di più scalzi . Poco importa se sui piedi , al calare della sera si portano  i segni di  una giornata intera trascorsa ad inseguire un  pallone.  O forse meglio dire un sogno e  solo Dio , come al solito, sa veramente chi è il  predestinato a sbarcare tra i grandi.

Il calcio giocato nelle favelas resta fin da sempre un calcio di passione e speranza. Passione perché  il futebol, cosi lo chiamano in  Brasile,  è sport nazionale e davvero si prende a calci qualunque cosa abbia il potere di rotolare (lattine, cenci avvinghiati assieme) . Beh il calcio trova in questi quartieri la sua massima espressione, basta percorrere le strade di una qualsiasi favela per addentrarsi in  gruppi di bambini che da mattina a sera corrono dietro ad una palla. Speranza perché attraverso il calcio in qualche modo si cerca di dare una svolta al proprio futuro ,  lasciandosi alle spalle un’infanzia piena di dolore e sofferenza.

Per altri invece il calcio , nel contesto favelas, resta una semplice via di fuga da criminalità, delinquenza , spaccio di stupefacenti, una vera e propria medicina per coloro i quali la vita ha deciso di sottrarre  da un futuro buio confinato dietro alle sbarre di una prigione.

Si gioca per divertirsi ma allo stesso tempo c’è tanta voglia di mettersi in luce. Campetti stretti, spazi ridotti spesso consumati,  permettono ai giovani ragazzetti di affinare l’aspetto tecnico a tal punto da sopperire quasi totalmente a quello fisico. Non a caso i più grandi campioni brasiliani quali  Ronaldinho, Ronaldo , Romario erano dotati di estrema sensibilità e tecnica sopraffina .Tutti e tre hanno iniziato a dare i loro primi calci proprio nelle favelas , esattamente in quei campetti dove ogni bambino , spera che un giorno qualche buon Dio del calcio , passando di lì , lo porti in alto tra i grandi.

E’ davvero incredibile pensare come in luoghi simili si riesca ad emergere. E’ un po’ come restare appesi ad un filo , in bilico tra la voglia di non guardare in basso per paura di cadere e la volontà di continuare a sognare restando li appesi. Il calcio delle favelas non è altro che la triste medaglia di questo sport. A distanza di anni le cose non sono cambiate  e di generazione in generazione si continua ad inseguire nei campetti trasandati di periferia quel’oggetto sferico ( se si ha la fortuna di possederne uno) cercando un sorriso  nell’avvenire .

Perché il calcio è universale, non ha una storia con un inizio e una fine. È un po’ come l’amore: è di tutti e di nessuno; c’è sempre stato e ci sarà sempre.
Spesso ci dimentichiamo che bisognerebbe “pensare” al calcio nel suo significato più profondo, più vero: quello della passione che prevale sugli interessi, quello di un bambino che raccoglie la palla sotto una macchina o dietro un cespuglio.

Il calcio nelle favelas è una una vera e propria fabbrica di sogni. Giorno e notte dentro ogni bimbo si nascondono sogni e speranze incredibili ;  inseguendo un pallone, prendendo a calci una pallina da tennis, una qualsiasi lattina vuota o più semplicemente una palla artigianale fatta di stracci. Perché  in fondo in fondo non importa dove e tanto meno cosa ma:

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio” . ( J.L.B)

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il senegal al mondiale del 2002, una nazionale che fece la storia.

Il Senegal ai mondiali del 2002 è stato l’emblema di un calcio che si fonda sull’umiltà di chi ancora crede in questo sport come puro divertimento. Calcare un manto erboso prendendo a calci un pallone con spensieratezza , istinto ,allegria e tanta voglia di mettersi in gioco con le grandi. Ripercorrendo storie come questa , mi viene semplicemente da pensare : “Allora forse i miracoli esistono davvero”.  

Ci sono storie incredibili che navigano in mari aperti, altre semplicemente nate in luoghi o nazioni confinate in angoli remoti del globo. Ci sono miracoli che si compiono in mezzo al deserto, tra la povertà e la malattia. Ci sono avventure pressoché indimenticabili, trascorse inseguendo un sogno proibito. Laddove l’impossibile diventa possibile e  solo il cuore conosce a memoria le mappe che hanno condotto a quelle destinazioni.

Il Mondiale nippo-coreano del 2002 rivela grosse sorprese fin dal sorteggio dei gironi. Cina , Senegal , Costa Rica e Slovenia sono le nuove matricole che portano nuovo entusiasmo alla competizione. Nessuno  però può immaginare che una di queste segnerà indelebilmente le pagine di quell’edizione mondiale,  dando un enorme schiaffo al calcio dei tatticismi.

Dal vecchio al nuovo Senegal

Il mondiale del Senegal simboleggia un “rivoluzionario” modo di concepire questo sport, votato esclusivamente al divertimento. Prima del 2002 il calcio in Senegal ha stentato a decollare, soprattutto a causa di un precario sistema organizzativo e di strutture poco adeguate. Le maggiori responsabilità sono di una federazione senza soldi né idee e di un CT, il tedesco Peter Schnittger, che, adottando metodi di insegnamento troppo drastici, aveva gradualmente assistito ad una vera e propria diaspora dei migliori “Leoni”. Gesta severe, cura massima del look e un calcio soffocato dagli eccessivi tatticismi, portarono solo ad un malessere collettivo.

Il 2002, sancisce l’anno della svolta. Come commissario tecnico viene nominato un francese : Bruno Metsu. L’ex allenatore della Guinea sembra quasi una buffa caricatura, appena uscita da un manga giapponese. Si definisce “un bianco col cuore da nero”, eterno amante della sfera che rotola incerta sui campetti di periferia di tutto il mondo.

La sua mentalità aperta conduce ad importanti cambiamenti. Lui, uomo di mondo semplice e pure un bel po’ ruffiano, intuisce che con certi personaggi sarebbe stato meglio fare il compagnone più che il CT.

                      “Non avevamo bisogno di un poliziotto bensì di uno come noi. Di uno che desse consigli, non ordini; che sapesse motivarci.”

Metsu si cala al volo nel ruolo. Impara a parlare il wolof, sposa una senegalese, si converte all’Islam  e, con una buona dose di pragmatismo  trasforma una nazionale “spenta” in una grande famiglia.

Da qui ha inizio il suo lungo cammino, che lo porterà ben presto ad esser etichettato come “il Profeta”. I Lions de la Teranga cominciano a vincere ripetutamente consolidando il gruppo: qualificazione al Mondiale, finale di Coppa d’Africa persa soltanto ai rigori contro il Camerun, e poi lo storico ingresso nei quarti del Mondiale.

Ciò che veramente lo rendeva amato da tutti era la sua enorme disponibilità e la sua grande dose di naturalezza.

Durante l’intero ritiro mondiale aveva pensato bene di lasciare libero il passaggio all’interno dell’albergo a parenti, mogli e amici. Si sentiva fratello di quella grande famiglia e figlio del continente africano. Niente catene, nessun vincolo, ma solo un modo semplice per responsabilizzare i suoi atleti.

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Davide contro Golia

Parte il mondiale e gli africani trovano all’esordio la potenza francese. Sembra uno scontro ai limiti dell’utopia, paragonabile alla leggenda di Davide contro Golia. Il calcio pieno di fama, ricchezza e potere da un lato, un’allegra e folkloristica combriccola di ragazzotti dall’altro.

Il palo colpito da Trezeguet sembra presagire tristi sventure per i giovanotti africani. Poi, improvvisamente, il gigante si rilassa. La matricola ne approfitta e sferra il colpo, andando incredibilmente in vantaggio. Il marcatore è Papa Bouba Diop. Mentre il mondo resta annichilito, i ragazzi improvvisano una strana danza attorno alla maglia. Uno di quei balli africani tipici de ” le petit village” che di solito si praticano a piedi nudi, in una di quelle terre invase da superstizioni e sofferenze, mentre il cuore viaggia alla ricerca di una speranza. Al sopraggiungere del triplice fischio, davanti allo stupore generale, il tabellone segna Golia 0 – Davide 1.

Group stage,Senegal shocked France in the opening match on ...

E’ l’inizio più incredibile nella storia di una competizione mondiale. Da quel momento il globo si innamorerà perdutamente di quei ragazzi. Henri Camara, El Hadji Diouf, Papa Bouba Diop e il loro storico capitano Aliou Cissé. Una nazionale sempre in festa, rumoreggiante,con un CT , che, più che commissario tecnico, era diventato un fratello di quella famiglia allargata.

Un golden dream

Le due gare successive vedono due pareggi, rispettivamente con Danimarca e Uruguay . Entusiasmante il 3-3 con i sudamericani. Senegal avanti 3-0 dopo 38′ minuti e il pareggio firmato da un rigore di Recoba a due minuti dalla fine. Sono sufficienti 5 punti agli africani per strappare il biglietto degli ottavi .

Si vola ad Oita, in Giappone, dove ad attenderli c’è la Svezia che si è sorprendentemente imposta nel “gruppo della morte”, su Inghilterra, Argentina e Nigeria. Gli scandinavi vanno subito avanti, complice un’uscita a vuoto del portiere Sylva. Il Senegal reagisce con Henri Camara, che si inventa un gol strepitoso. Per decidere chi passerà il turno si devono attendere i supplementari. Extra time  che, all’epoca, prevedevano ancora quella sadica tortura del golden gol. Come al campetto sotto casa: “Chi fa questo, vince!”

Dopo 5 minuti di supplementari,la storia sembra aver deciso che sia giunto per il Senegal il momento di salutare il mondiale, ma il tiro di Svensson si schianta incredibilmente sul palo. Al min’ 104 è un colpo da biliardo di Camara a spalancare le porte dei quarti al Senegal: un golden goal che vale il golden dream.

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La nazionale africana uscirà di scena a Nagoi il 22 giugno,  facendone le spese ad opera della miglior Turchia di sempre. Tra le file turche militavano campioni del calibro di Hakan Sukur, Umit Davala, Emre Belozoglu, Yildiray Bastürk, Rustu Recber.

La fine di una generazione

Di lì a qualche anno, quell’incredibile gloriosa cavalcata sarebbe diventata solo un lontano ricordo. Quella sorprendente pagina calcistica, scritta dagli eroi di quella nazionale avrebbe assistito ad una nuova diaspora dei suoi atleti più rappresentativi. Diouf, preso dal Liverpool dopo quel favoloso Mondiale , sarebbe naufragato nel suo mare di eccessi e bravate fuori e dentro il campo. Khalilou Fadiga, acquistato dall’Inter, non avrebbe mai messo piede in campo, fermato da problemi cardiaci alle visite mediche. Altri avrebbero raccolto ingaggi in piccole e medie squadre di tutta Europa. Bruno Metsu, il profeta di quella nazionale, lo ha strappato alla vita un bruttissimo cancro diagnosticatogli nell’ottobre del 2012.

Quell’estate è rimasta l’estate dei Leoni africani, I Lions de le Teranga . Ancora oggi a distanza di quasi 20 anni,  pensiamo a loro:  al Profeta Metsu e il suo Senegal dei Miracoli.

La Giamaica ai mondiali di Francia’98 : quando Baristi e portieri d’albergo hanno fatto la storia.

Storie irripetibili, favole sensazionali, piccolissime realtà che si siedono al tavolo dei grandi e provano a gustare piatti prelibati mai assaggiati prima. L’avventura della Giamaica ai mondiali francesi del 1998 è stata breve ed è quasi passata inosservata, ma resterà sempre impressa nel cuore di tutti i nostalgici.

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Storia ed esordi

Tutto cominciò il 31 marzo del 1996 a Paramaribo, Suriname 0 -Giamaica 1. Tutto finirà il 26 giugno del 1998 a Lione, Giappone 1 -Giamaica 2 con doppietta di un certo Theodore Whitmore.

Ma percorriamo questa storia a piccoli passi partendo dal fatto che in Giamaica il calcio non è sport nazionale . Lo sport di riferimento infatti è il cricket ,di cui i giamaicani ne vanno piuttosto fieri. Nelle 15 edizioni del mondiale precedenti a quello di Francia ’98, la nazionale Giamaicana per ben 10 volte non partecipò  alle qualificazioni.

Nel 1994 diventa presidente della federazione giamaicana di calcio il “Capitano”Horace Garfield Burrell. . Burrell ha una lunga carriera militare alle spalle, è stato capitano delle forze armate giamaicane e proprio durante questo periodo si prende a cuore le sorti della squadra di calcio dell’esercito. In soli 3 anni  porta la compagine delle forze armate a vincere nel 1985 il primo e unico campionato giamaicano della sua storia. In questo periodo conoscerà Jack Warner, futuro presidente della Concacaf, che lo inviterà a diventare membro esecutivo della CFU (Caribbean Football Union).Terminata la carriera militare, si tuffa nella ristorazione aprendo la catena “Capitan’s Bakery”. Il calcio rimane comunque parte importante della sua vita e continua la collaborazione con la federcalcio giamaicana di cui per 2 anni sarà anche tesoriere, spianandosi la strada verso l’elezione come presidente.

Burrell coltiva un sogno, ed è addirittura convinto che questo possa diventare realtà . Il suo obbiettivo era quello di portare i REGGAE BOYS ( cosi erano chiamati i giocatori di quella storica nazionale) ai mondiali francesi del 1998.  Ovviamente la nazionale doveva comunque rinforzarsi poiché affrontare un competizione mondiale senza atleti che avessero un minimo di esperienza  sarebbe stato come combattere una guerra senza armi.

In primis si doveva cercare un commissario tecnico e Burrell  ne desiderava uno degno di portare in alto il nome di quel paese.

Cosi dopo aver parlato e specificato al ministro di allora Patterson  , che la partecipazione al mondiale  della Giamaica avrebbe migliorato la qualità di vita del paese e avrebbe rappresentato una via di fuga e un bene per il suo popolo  si comincia la ricerca di un timoniere. Serviva un nome che potesse passare alla storia. Dove andare a cercarlo?

Burrell punta in alto e si proietta alla ricerca di un CT brasiliano dal momento che il Brasile, in quegli anni,  esprimeva il miglior calcio al mondo. Sei sono i nomi che gli vengono proposti, la scelta ricadrà su quello che più l’ha colpito per la meticolosità del suo modo di far calcio.

Il nome è René Rodrigues Simões.. Baffi folti e occhiali spessi. Renè sembra quasi una buffa maschera di carnevale.

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La nuova Giamaica

Come prima cosa chiede di poter vedere le strutture e controllare che tutto fosse a norma. Ma ovviamente quello che trova, sono delle strutture  pessime, che quasi lo costringono a tirarsi indietro.

Simões si ricrede solo dopo aver visto un match del campionato locale, quando scorge delle potenzialità nei calciatori e pertanto si convince ad accettare la missione.  Il CT  organizza un gran numero di amichevoli (in 4 anni saranno circa 120 le partite dei Reggae Boyz). Resta però una questione da risolvere tutt’altro che banale : quella dei giocatori a disposizione.  Serviva esperienza e qualità. Per la prima sfida Burrell si affida ad alcuni atleti che già militavano nel campionato inglese (Deon Burton attaccante del Derby County, Paul Hall punta del Portsmouth e Fitzroy Simpson ala sinistra sempre del Portsmouth) e che di esperienza ne avevano maturata a sufficienza. Per la qualità  bisognava correre il rischio , si ma dove cercarli? Considerato che l’isola era da anni una meta turistica mondiale, Burrell  pensa bene ai resort e ai grandi alberghi.

Ecco  che spunta il nome di Theodore Withmore  che lavorava come barman in un hotel. Stessa sorte per l’esterno sinistro Sinclair, il quale aveva trovato impiego come “Hotel porter” nonché un semplice portiere d’albergo. Inizia a prendere forma la nazionale che scriverà una delle più belle pagine del calcio mondiale. Tuttavia , manca ancora un tassello:  Robert Earle. Earle è uno dei cardini del Wimbledon in Premier , uno che la nazionale inglese l’ha sfiorata in più occasioni e non si lascia convincere cosi facilmente. Burrel decide quindi di invitare il giocatore e la famiglia in terra giamaicana. Robbie torna alle origini e non impiega molto a convincersi che quella era la sua nazionale. L’armata dei Raggae Boyz è pronta.

Simões e la federazione giamaicana si attivano e propongono alle varie multinazionali (come Burger King, Shell e Citybank) di “adottare un campione”. L’iniziativa ha successo e alla federazione entrano anche i soldi necessari per pagare, almeno in parte, le trasferte internazionali.

LE QUALIFICAZIONI. 

ll debutto è previsto il 7 settembre 1997 in casa contro il Canada. Burton impiega 55 minuti a scrivere il proprio nome tra i marcatori, piegando così i canadesi. Sette giorni dopo lo stesso Burton si ripete (grazie a un regalo generoso del portiere avversario) sempre a Kingston ma contro la Costa Rica. Punteggio pieno dopo le prime due gare, prima della difficoltosa trasferta negli Usa. Il 5 Ottobre si vola a Washinghton.

Eric Wynalda porta in vantaggio gli americani. A pareggiare i conti ci pensa, un minuto dopo, il bomber Deon Burton. Il tabellone finale recita 1-1.  Discorso qualificazione che, a questo punto, potrebbe essere archiviato vincendo il 9 novembre a San Salvador. La partita tuttavia terminerà in parità, con i festeggiamenti che saranno rinviati alla gara successiva con il Messico. A Simões per l’impresa serve un pareggio casalingo contro un Messico già qualificato o, in alternativa, sperare che i salvadoregni non riescano a battere in trasferta gli Stati Uniti.

Il 16 novembre del 1997 l’Indipendence Park di Kingston è un muro giallo-verde. Il Messico non punge quasi mai. La Giamaica sfiora più volte la rete, evitata soltanto dai miracoli del portiere Oswaldo Sanchez.

Nell’altra gara gli americani conducono per 3 reti a 2 contro El Salvador, poi improvvisamente all’82’ il serbo-americano Predrag “Preki” Radosavljević sigla la quarta marcatura per gli States regalando la certezza matematica della qualificazione ai giamaicani. L’Indipendence Park di Kingston esplode gridando “USA! USA!”.  Al triplice fischio c’è chi piange, chi ride e chi prega, chi ringrazia e chi ancora con occhi increduli stenta a realizzare quanto accaduto: la Giamaica, per la prima volta nella storia, è qualificata ai mondiali di calcio.

Il premier Patterson dichiara festa nazionale per il giorno seguente e la sera stessa l’impianto di casa diventa sede di un concerto improvvisato da calciatori e cantanti. Si brinda e si balla sulle note di One Love, un celebre pezzo inciso da un altro grande artista che ha scritto la storia del Raggae Jamaicano e poi mondiale: tale Robert Nesta, a tutti noto come Bob Marley.

Si vola in Francia.

Il 14 giugno 1998, allo Stade Félix-Bollaert di Lens, i Reggae Boyz cominciano la loro avventura. Da Kingston a Montego bay, passando per tutte le “Colonie” in giro per il pianeta, tutti i giamaicani attendono impazientemente il fischio d’inizio. La Giamaica è stata inserita nel gruppo H con Argentina, Giappone e Croazia.

La gara d’esordio è con i croati e terminerà con un 3-1 in favore di quest’ultimi. Sette giorni dopo, al Parco dei principi di Parigi, la piccola Giamaica si trova davanti un colosso del calcio internazionale come l’Argentina. Simões passa al 4-4-2. L’Albiceleste passa in vantaggio al minuto 33, con uno “scavetto” del “Burrito” Ortega. La Giamaica non si rende mai pericolosa ma regge botta, avviandosi a chiudere il primo tempo con un solo gol di svantaggio. Nel recupero però Darryl “Pow-Pow” Powell entra in maniera folle su Ortega, riceve il secondo giallo e termina così il suo mondiale. La nazionale di Passarella nel secondo tempo dilaga: Ortega fa doppietta al 55′ con la fotocopia del primo gol, mentre al 72′ esimo sale in cattedra Gabriel Batistuta che, con due destri precisi e un calcio di rigore, fissa il il risultato sul 5-0. Partita a senso unico e giamaicani costretti a rifar le valige. Resta però l’ultima partita del girone: inutile per la classifica ma decisiva per l’onore.

Alle ore 16 del 26 giugno del 1998 allo Stade Gerland di Lione va in scena la la “Finalina” del girone H. Il Giappone arriva a questa sfida dopo due onorevolissime sconfitte per 1 a 0 contro Argentina e Croazia. L’eroe di giornata diventa proprio “il barista” Theodore Withmore. E’ lui  infatti a siglare la doppietta che consente alla Giamaica di conquistare i suoi primi tre punti nella storia in una competizione mondiale. I Raegge boyz dunque superano per 2-1 il Giappone ed è immediatamente festa grande.

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Si torna a casa a mani vuote ma con il cuore pieno di sorrisi e soddisfazioni. I giocatori di quella nazionale saranno accolti da orde di tifosi festanti all’arrivo in aeroporto a Kingston. Peccato per quel sogno che sfumò così presto, ma forse non c’era da rammaricarsi. Il sogno tanto desiderato si era già avverato quel 16 Novembre del 1997, quando un’isoletta nel cuore dei Caraibi ha scritto una delle più belle pagine della storia dei mondiali.

 

Il ricordo di un’estate lunga 20 anni: Le inennarrabili emozioni racchiuse nello scrigno di Stanford.

 

“IL RICORDO CONSERVA QUELLO CHE IL TEMPO TENTA DI CANCELLARE.”

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La storia è strana e vive di ricordi . Momenti , attimi che per qualche motivo hanno segnato indelebilmente le pagine della nostra vita.

Poi ci sono quegli scenari che rievocano le memorie di un trionfo, di un semplice traguardo raggiunto, di un esperienza vissuta a pieno e terminata con un sorriso nostalgico sul volto.

C’è uno scrigno , situato nella California del nord , precisamente nella Contea di Santa Clara, a circa 60 chilometri a sud di San Francisco che racchiude l’emozione nostalgica di un estate torrida piena di memorabili trionfi. Per tanti un’estate come le altre, per loro una di quelle indimenticabili,dopo aver scritto una delle pagine più belle della storia del calcio.

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Benvenuti a Stanford!

Forse sarà semplicemente l’entità del nome  visto che questa etichetta non è poi cosi rara sentirla pronunciare da noi amanti del calcio. Lo stesso Stamford Bridge , casa dei blues in Inghilterra è uno di quegli scenari che di trionfi ne ha visti a centinaia, un catino di emozioni pronto ad esplodere quando la nostalgia si affaccia.

Ma in realtà i due stadi hanno in comune solo il loro modo di esser pronunciati ( le due parole sono scritte in modo diverso).

Da una parte il calcio, dall’altra l’istruzione applicata allo sport. Da un lato uno degli impianti più prestigiosi d’europa , dall’altro una delle università più affermate nel mondo. Si perché da qui è partita una delle dichiarazioni filosofiche più belle di sempre. Fu un certo Steve Jobs a rilasciarla e per molti è diventata una vera e propria filosofia di vita .

  “ Remembering that you’re going to die , is the best way I know to avoid the trap of thinking  you have something to lose.You are already naked. There is no reason not to follow your  heart.”  (Steve Jobs, Stanford University). 

E allora forse , queste parole sono state davvero presa alla lettera da c.t Tommy Svensson e la sua nazionale nel mondiale a stelle e strisce del 1994. Apparentemente una nazionale come tante, che vantava malgrado alcuni nomi importanti ( Ravelli, Brolin, Larsson) ma sulla quale ,nessuno mai avrebbe scommesso. Cosi la Svezia di quel mondiale ha saputo miscelare carattere e cuore.  Trovare malgrado , il giusto equilibrio psico-fisco sui campi viste le temperature non era un aspetto del tutto scontato .  A distanza di 36 anni, gli scandinavi tornarono  inaspettatamente sul podio mondiale.

Klas Ingesson e i sogni della sua Svezia

Tralasciando però quelli che furono i risultati, la mia attenzione si focalizza in particolare sulla gara contro la Romania , nonché un punto di svolta per gli scandinavi nel mondiale ’94. Si gioca allo Stanford Stadium , situato all’interno del celebre complesso universitario. Questa è anche una delle particolarità che caratterizzarono quel mondiale che adibiva stadi di football, impianti sportivi universitari all’evento della Coppa del mondo.

Torniamo però  a quella partita , non una delle più brillanti sicuramente sul profilo del gioco,  ma che vide gli scandinavi conquistare  la semifinale con il Brasile superando i rumeni ai calci di rigore . L’ eroe di giornata è il “goalkeeper” (cosi come dicono gli americani) , Thomas Ravelli che neutralizza con un guizzo il rigore decisivo calciato da Belodedici.

Momenti unici per la squadra di Svensson e per l’intero paese; raggiungere la semifinale mondiale era come aver scalato l’Olimpo.

Malgrado l’eliminazione successiva ad opera del Brasile e il mancato accesso alla finale di Pasadena, la Svezia riuscirà a “consolarsi” (se cosi si può dire ) salendo sul 3°gradino del podio dopo aver superato per 0-4 la Bulgaria. Ma le aspettative erano già superate e quel bronzo aveva un valore che andava al di là della medaglia stessa. Gli scandinavi avevano appena scritto una delle più belle pagine del calcio mondiale.

A distanza di vent’anni da quel quarto di finale disputato con la Romania, lo scrigno di Stanford conserva ancora intatte le memorie di quell’impresa. Chiedetelo a chi come  Ravelli , Brolin e Coach Svensson ha deciso di tornare a respirare la magia nostalgica di quel trionfo proprio li nel cuore della California , dentro il tempio dei ricordi.

Quello che vi ripropongo qua sotto è un video diviso in due parti. Guardatelo attentamente.Malgrado sia in lingua originale svedese , vorrei che soffermandovi sulle immagini provaste a calarvi (come anch’io ho fatto) ,con vena nostalgica, nell’emozione di chi come loro ha vissuto il mondiale a pieno .Poi frugando nel cassetto dei ricordi , cerca di ricomporre il puzzle di quell’indimenticabile e torrida estate americana del ’94.

Quasi sicuramente, ai lettori più attenti e nostalgici il video  avrà suscitato un mucchio di incredibili ricordi . Mi sono chiesto in prima persona, poco dopo averlo visto, come sia possibile a distanza di tanti anni , che si possano riscoprire e rievocare emozioni così forti semplicemente toccando posti e luoghi apparentemente cosi lontani da noi.

Thomas Ravelli nella parte iniziale ( min 00:58) sembra davvero rivivere l’emozione del momento.Il suo ingresso nel rettangolo , lo sguardo e la mente che  percepiscono qualcosa di ormai lontano . Allo stesso tempo, pochi istanti dopo,  rievocano l’attimo e incredibilmente l’eroe svedese si lascia andare in una corsetta lenta a braccia aperte che riporta a quella fatidica vittoria del 10 Luglio ’94.

E cosi Stanford , da tempo sembra diventato il tempio della nostalgia. Quell’ amplesso universitario di fama mondiale, racchiude al suo interno uno stadio pieno di storia, ricco di memorie.Uno scrigno colmo di emozioni che per anni sono rimaste vive e continueranno a vivere aspettando che di tanto in tanto qualcuno le risvegli.

Un vecchio proverbio afferma:

“Quando ti viene nostalgia, non è mancanza.

E’ presenza di persone, luoghi,emozioni che tornano a trovarti.”

Cosi magari se un giorno vi capitasse, di trovarvi nei dintorni di Santa Clara e chiedete dello Stanford stadium non sorprendetevi se gli americani stessi da un po’ di anni a questa parte lo hanno etichettato col nome di ” The Bowl of memories”.

Tradotto non è altro che ” il catino dei ricordi”. Lo chiamano The Bowl perché visto dall’alto ha davvero la forma di un grosso catino, “dei ricordi” beh perché dopo tutto anche a loro quell’estate del mondiale è rimasta nel cuore.

Lasciatevi andare ,solo allora forse,  capirete il perché di quella sua atmosfera così magica e riuscirete a darvi una spiegazione crogiolandovi nelle sue nostalgiche reminiscenze.

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Il codino che disegnava poesia. Un augurio speciale a Roby nel giorno del suo 51°compleanno.

Ci sono storie che non smetterei mai di leggere.

Ci sono storie che meriterebbero un posto nelle scuole.

Ci sono storie, come quella che sto per raccontarvi, che più che storie assomigliano a poesie.

“A veder giocare Baggio ci si sente bambini. È l’impossibile che diventa possibile. Una nevicata che viene giù da una porta aperta del cielo”.

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Parole e musica di Lucio Dalla.Un poeta. Robi compie oggi 51 anni eppure sembra ieri quando danzava con il pallone tra i piedi.

Il calciatore Baggio è una macchina non semplice da spiegare.La sua carriera calcistica comincia dal Vicenza poi un brutto infortunio al ginocchio fa temere il peggio al divin codino .Dieci ore di intervento nella clinica del professor Bousquet. Una sfida disperata. Che Robi vince. E tutto, d’incanto, diventa magia.Il passaggio alla fiorentina segna una svolta nella carriera di Baggio e proprio con la maglia viola segna un gol da copertina nel tempio di Maradona , il San Paolo. La Fiorentina è il suo trampolino di lancio. Un rapporto profondo. In realtà mai tradito. Perché i primi amori hanno sempre qualcosa di speciale. C’è chi come Gianni Rivera ,  è colto da una forte ammirazione nei confronti di Roby tant’è che disse:

“Baggio è l’ultimo romantico del calcio, l’unico calciatore che riesce a non farmi cambiare canale in tv”.

e chi invece come Michel Platini nutriva qualcosa che proprio non gli andava giù  tanto da cucirgli sulla pelle questa etichetta:

“Baggio non è un dieci, è piuttosto un 9,5”.

E non era un modo per incoronarlo.Piuttosto il tentativo di ingabbiarlo in un’etichetta che era tutto e niente. Scatto, dribbling e conclusione vincente sull’uscita del portiere è stato il pezzo forte del suo repertorio. Ma come dimenticare le sue pennellate su punizione. E la freddezza nei suoi faccia a faccia con i portieri. Spietato come i pistoleri di Mezzogiorno di Fuoco. Il tutto riuscendo a convivere con delle ginocchia tenute insieme da ore e ore di lavoro in palestra e dalla sua voglia di non arrendersi.

 

Robi non è mai stato una persona fragile. È andato dove lo portava il cuore. Al Milan perché aveva speso una parola con Berlusconi, al Bologna perché aveva bisogno di ritrovare calore umano, all’Inter perché da ragazzino era tifoso nerazzurro e infine al Brescia perché il calcio è bello a prescindere dalla classifica. E dove è andato i tifosi lo hanno trattato da eroe. Non solo per i suoi gol. Ma per tutto l’effetto Baggio. Un effetto gioia. Amato dalla gente, sopportato a fatica dagli allenatori. Robi è stato un problema per Capello ai tempi del Milan, per Ulivieri nella parentesi Bologna e per Lippi nel breve ciclo Inter. Per non parlare di quando Ancelotti, a quei tempi allenatore del Parma, invitò il suo patron Tanzi a non ingaggiare il Codino. Poco adatto alle sue idee calcistiche. Storia strana, questa. Difficile, quasi impossibile da spiegare. Ma non chiedete a Robi. Vi risponderebbe con un sorriso.

 Robi Baggio nasce a Caldogno il 18 febbraio del 1967, da mamma Matilde e babbo Florindo. Ha rischiato di chiamarsi Eddy (ci si chiamerà il fratello minore) perché il papà, pazzo di ciclismo, era un tifoso scatenato di Merckx. Una vita calcistica con tante maglie: Vicenza, Fiorentina, Juve, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Ma se devi immaginarlo con un colore ti viene a mente l’azzurro. Azzurro Italia. Robi è sempre stato vissuto come il campione di tutti. Lui, capace di accendere le notti magiche del Mondiale in casa nostra, nel ’90; lui l’unico azzurro ad aver lasciato la sua firma nel tabellino dei marcatori in tre Mondiali; lui capace di conquistare la fiducia dei c.t. indossando cinque maglie diverse. Nobili e meno nobili. E pazienza per quel rigore sparato al cielo nella finale di Pasadena contro il Brasile.

I rigori li sbagliano soltanto quelli che hanno il coraggio di tirarli”.

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Robi ci aveva fatto scendere da un aereo pronto a riportarci a casa. Un mondiale , quello americano pieno di vicissitudini e contraddizioni . Nonostante tutto , nonostante alcuni screzi Robi aveva saputo farsi amare anche dal c.t Arrigo Sacchi , perché era diventato l’emblema di quella nazionale , il suo spirito da trascinatore ci aveva condotti fin lì , dove mai nessuno avrebbe pensato , alla finale di Pasadena. Il mitico Pelé elogiandolo ,gli dedicò questa frase:

Baggio è una leggenda ed è bello viverlo con la sua semplicità, il suo talento ha segnato il calcio italiano.”

La Perla Nera lo considerava un brasiliano nato per sbaglio in Europa. Del resto, Robi è cresciuto nel mito di Zico. Dribbling, punizioni telecomandate. Un pallone da accarezzare. Piedi sudamericani.

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Baggio festeggia 51 anni e sta cominciando a decidere cosa farà da grande. Per tre anni è stato presidente del Settore Tecnico. Lui aveva idee rivoluzionarie ma il movimento cercava solo una bella figurina da attaccare all’ingresso del centro tecnico di Coverciano. Per un certo periodo ha coltivato l’idea di inventarsi allenatore. È bastato far filtrare il messaggio per ricevere le prime proposte. Baggio è un bel nome da spendere. Ma l’idea è evaporata senza lasciare traccia.

Robi e il pallone non sono due facce della stessa medaglia. O meglio non lo sono più da quando ha appeso le scarpette al chiodo. Il calcio è uno dei suoi divertimenti. Da vivere in maniera leggera. Quando capita.  Gli artisti sono sempre più merce rara. Il pallone non è più un lavoro. C’è quando capita. Quando magari un filo di nostalgia riaffiora. Quando partecipa a degli eventi e viene travolto dall’ amore della gente. Che non lo ha scordato.

Robi anche con qualche filo bianco tra i capelli è rimasto un inguaribile romantico. Capace di nascondersi per un anno ma pronto come tutti ricordiamo ad accompagnare l’amico Stefano Borgonovo nella passerella al Franchi spingendo la sedia a rotelle e raccontandogli una battuta dietro l’altra per tranquillizzarlo.Risultati immagini per ROBY BAGGIO borgonovo

Il Baggio campione è solo un dolce ricordo. Il Baggio uomo ora ha un’altra sfida in testa. Per i prossimi dieci anni sogna di sviluppare a livello mondiale un progetto legato ai giovani e al calcio. E l’obiettivo primario non è creare campioni ma far crescere i ragazzi nella maniera giusta. Il Peter Pan di Caldogno non ha mai smesso di coltivare sogni.

TANTI AUGURI DIVIN CODINO! Risultati immagini per baggio

USA ‘ 94: IL ricordo di un compleanno amaro.

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Il 5 luglio 1994 Zola coronava il suo sogno: esordio ai Mondiali di Calcio proprio il giorno del suo compleanno. Non aveva previsto il clamoroso abbaglio dell’arbitro Brizio, espulsione diretta e discesa negli inferi del piccolo tamburino sardo…

 

Si vola a Boston in un caldo ed afoso pomeriggio di luglio, correva l’anno 1994 ed al Foxboro Stadium gli azzurri guidati da Sacchi dopo aver superato il girone di qualificazione con non pochi alti e bassi (ripescati tra le migliori terze), si apprestano ad affrontare la Nigeria , una delle nazionali rivelazione del torneo.

Si perché gli africani, vantano una nazionale piena di giocatori interessanti, Amunike , Amockachi un giovanissimo Okocha ed soprattutto hanno dalla loro una condizione atletico -fisica impressionante. Dopo aver vinto la Coppa d’ Africa sono approdati al mondiale negli States come nuova matricola, ma non hanno impiegato  tanto a dimostrare al mondo intero che quella squadra di “matricola” aveva ben poco. Vincono con Bulgaria e Grecia e mettono a dura prova l’Argentina ( che poi vincerà 2-1) conquistando come primi classificati l’accesso agli ottavi. Ed eccoci qua , di nuovo da dove siamo partiti: da Italia-Nigeria.

La partita sarà molto fisica ,ma la nostra attenzione non è incentrata sui 90°min di gioco, bensì si sposta al min’79  su quel volto esterrefatto ,che esplode in lacrime e su quel  cuore sardo incredibilmente infranto dal messicano Brizio Carter.

Gianfranco Zola è un sardo un po’ diverso dalla sua gente, non è scontroso, non è chiuso, della sua terra ha soltanto la timidezza tipica di un’isola staccata dall’Italia, considerata per troppo tempo, e ingiustamente, una costola lontana dal corpo del paese. La presenza di Zola nel mondiale aveva riavvicinato la Sardegna all’Italia, quanto, e forse più, la presenza nei ruoli dirigenziali di un altro antico campione che in Sardegna ha conosciuto i suoi fasti, Gigi Riva.

Il mondiale di Zola era cominciato in un secondo tempo di angosciosa sofferenza. Eravamo sotto di un gol con la Nigeria, la possibilità di uscire dal mondiale era così grande e così evidente che il suo inserimento in campo era sembrato a tutti l’ultima mossa disperata. Zola era pronto, si era scaldato per qualche minuto ai bordi del campo, stava bene, si era sempre allenato per tutto il ritiro, come le altre riserve, ben sapendo che per lui sarebbe stato più difficile ritagliarsi un angolo di popolarità in quel mondiale.Del resto, era arrivato in America dopo che Sacchi aveva rinunciato (su richiesta dello stesso giocatore) a Roberto Mancini, stufo di essere considerato soltanto l’alternativa di Baggio.

Mai un lamento, mai un’osservazione fuori posto, sempre al lavoro, mettendo tanta umiltà con la grande considerazione di Gigi Riva che, alla vigilia del mondiale, lo aveva pronosticato fra le grandi sorprese. Riva, probabilmente, ci avrebbe indovinato se quel dannato Brizio non si fosse messo in mezzo. In campo, contro la Nigeria, mentre gli altri azzurri si stavano spegnendo e si profilava una grossa debacle, Zola stava conquistando spazio su spazio. Ormai sembrava l’unica salvezza, il solo appiglio, l’unico giocatore pronto a combattere fino all’ultimo istante quella battaglia incredibile. In qualche modo aveva rianimato anche Roberto Baggio, che era rimasto in campo proprio per sfruttare il genio del suo collega di fantasia. Sacchi aveva pensato a quei due per evitare la sciagura nazionale.

Cosi al min’79 il messicano Brizio Carter, nonché direttore di gara, decide la massima sanzione per l’intervento di Zola sul terzino nigeriano Eguavoen. Un arbitro maldestro, inadeguato e incompetente gli aveva sbattuto in faccia un cartellino rosso. Fuori dal campo un attimo dopo l’inizio del suo mondiale. E per cosa, poi? Per un fallo che non sembrava neppure fallo, per un intervento magari non dolcissimo ma neppure meritevole di un’ammonizione.

“Quando l’arbitro ha fischiato, ho pensato: guarda questo che fa, fischia una punizione che non esiste. Quando ha messo la mano nel taschino, ho avuto paura: e ora che combina? Mi ammonisce? E’ incredibile. Quando ho visto il cartellino rosso non ci volevo credere. Espulso? lo? E perché? No, no, non è vero, fermatelo, fermatelo“.

Proprio quel giorno , del suo esordio al mondiale e della sua espulsione, era il giorno del suo compleanno.Ventotto anni compiuti in quel modo, dalle stelle alle stalle afferma un vecchio proverbio, da una festa grandiosa a una festa sciupata.Non c’era niente che potesse consolare le lacrime di Zola .Tuttavia ci piace pensare che il sacrificio di Zola non sia stato vano. Perché la sua espulsione scatenò in qualche modo la grande reazione dell’Italia, una reazione che ci portò dall’Atlantico al Pacifico, dal Massachusetts all’assolata California, da Boston a Pasadena in quello che sarebbe stato un viaggio entusiasmante. Ferita  da una così grande ingiustizia, la nazionale ritrovò la sua anima e Baggio, toccato dal genio del suo amico, riscoprì se stesso e il gol. Tutto questo succedeva mentre il piccolo Gianfranco, sorretto dal capo-delegazione Raffaele Ranucci e da uno degli uomini dell’ufficio stampa, Stefano Balducci, stava crollando in una paurosa crisi di nervi.

 

“La rabbia che ti resta dentro è incredibile. Non avevo mai provato niente di simile. Lasciavo la nazionale in dieci nel momento più difficile del nostro mondiale. Ho pensato anche a me, ma solo per un momento, pensavo soprattutto ai miei compagni che volevano farmi coraggio ma non avevano le parole, non avevano la forza. Vedevo i loro occhi iniettati di sangue, io ero l’uomo più fresco, potevo fare qualcosa, potevo aiutarli, e invece mi hanno strappato via.”

Aveva sperato per un attimo che i giudici della Fifa fossero comprensivi, che la pena fosse mite dopo quella ingiustizia. Ogni volta che c’è un’espulsione sono due giornate di squalifica, ma tutt’altro , i giudici non avevano sentito ragioni,due turni di squalifica anche per Zola. In compenso, avevano spedito a casa l’arbitro messicano.

Intanto la nazionale era riuscita nell’impresa e si era guadagnata l’accesso ai quarti ma l’amarezza e la delusione per quell’ espulsione restavano grandi.Come avrebbe potuto spiegare agli amici di Oliena quella sua grande delusione? Quel giorno, il 5 luglio, poteva cambiare il suo mondiale, ci stava entrando, anzi, c’era entrato, ma lo avevano sbattuto subito fuori.

Ma con grande forza, e con quel silenzio che è uno dei più antichi rifugi della sua gente, Gianfranco Zola aveva cominciato a tifare e a sperare. Bastava superare i quarti, entrare nelle prime quattro, perché in una delle due finali ci fosse anche il suo nome scritto nel referto ufficiale consegnato alla Fifa.

Il successo degli azzurri ai danni della Spagna, determinò automaticamente che la nazionale guidata da Sacchi fosse entrata nelle prime quattro nazionali del mondo, nelle file della panchina un piccoletto gioiva e saltava più degli altri .

Quel cuore infranto si era preso la sua rivincita e Zola adesso poteva finalmente spegnere le candeline di una torta che era sembrata fin dal primo boccone , forse fin troppo amara.