Diego e il doping ai mondiali americani: l’inizio di una triste fine.

 

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Quando si parla di doping e si analizzano casi come questo non è mai facile prendere posizioni a favore dell’uno o dell’altro e dire chi effettivamente abbia ragione. Assumere sostanze illegali è certamente una violazione non da poco per quello che concerne le regole sportive; resta però da capire se ci sia stata veramente la volontà del giocatore o forse meglio dire una propria conoscenza di ciò che il proprio corpo avrebbe assimilato o se tali sostanze siano state semplicemente somministrate da qualche ” genio dello sport” per rendere quella figura malcurata e tralasciata un’incredibile macchina da soldi scolpita . Si perché Diego doveva essere un’icona di quel mondiale, una delle star che insieme ai vari Romario , Stoichkhov e Roberto Baggio avrebbero in un certo senso fatto decollare il mondiale americano oltre l’indifferenza del popolo statunitense verso il calcio. Premesso che la nazionale Argentina sbarca negli States a seguito di un travagliato girone di qualificazione ,che l’ha vista (ancora priva di Diego) prima soccombere al Monumental per 0-5 contro i cafeteros in una di quelle che sarà ricordata come la più grossa sconfitta nella storia dell’albiceleste e poi costretta allo spareggio intercontinentale contro l’Australia. Qui Diego Maradona torna in scena da capitano, ma ancora una volta la stranezza torna a galla nel caso di Diego. Ciò che non si spiega è come sia possibile che in partite di tale caratura(essendo uno spareggio intercontinentale) nessun tipo di controllo sugli atleti venisse effettuato. Maradona torna in scena e sembra completamente rigenerato. Neanche lontanamente riconoscibile dalla figura appesantita e goffa che era apparsa fin dall’amichevole pre-mondiale con la Croazia. Merito di un certo Daniel Cerrini body builder che allo stesso tempo si definiva preparatore fisico e dietologo . La verità era tutt’altra , Cerrini era si un body builder ma con il calcio e tutto ciò che si allacciava alla sua preparazione aveva ben poco a che fare, o forse più semplicemente non ne sapeva niente. A questo punto la domanda che nasce spontanea ai lettori è questa: Allora Perche’ Maradona accetto’ di allenarsi agli ordini di un personal trainer che non sapeva niente di calcio ma solo di culturismo, come Daniel Cerrini?  Si ipotizza che Cerrini fosse un caro amico di Diego e fu lo stesso Maradona che recatosi da lui decise di riporre la sua “rinascita” nelle mani del “preparatore”. In pochi mesi Diego perse ben 15 chili  a prezzo di un lavoro durissimo in palestra, ma anche di un trattamento farmacologico extrastrong. 

“Daniel Cerrini mi aveva aiutato a trovare il peso-forma quando andai a giocare col Newell’s di Rosario. Usavo una dieta cinese. Cerrini era un dietologo e un preparatore fisico di cui mi fidavo. E perciò lo volli anche in America.”

La cura extrastrong di Cerrini prevedeva la somministrazione di un prodotto chiamato Ripped Fast  prettamente finalizzato a ridurre lo stimolo della fame e permesso dai regolamenti FIFA secondo le successive dichiarazioni di Diego . Giunti negli, States precisamente a Boston questo prodotto sembrò risultare introvabile così che Cerrini pensò di somministrare al Pibe de oro qualcosa di simile chiamato  Ripped Fuel : peccato che le funzioni di quest’ultimo fossero ben altre e soprattutto che il seguente prodotto conteneva sostanze illegali tra le quali efedrina che porteranno il campione ad una totale debacle. Cosi dichiarera’ lui stesso:

 “Per ridurre lo stimolo della fame, in Argentina, prendevo il Ripped Fast permesso dai regolamenti Fifa. A Boston non ne avevo più e allora Cerrini cercò un prodotto simile. Trovò il Ripped Fuel. Ma non era la stessa cosa. Il Fuel conteneva l’efedrina e le altre quattro sostanze trovate nelle mie urine.”

Passiamo ai fatti. Adesso atterriamo tutti assieme a Boston, Foxboro Stadium, il 21 giugno 1994. La Grecia aspetta l’Argentina, e sul Partenone si abbatte una tempesta di calcio che lo distrugge dalle fondamenta. La Selección di Alfio Basile è un sogno di fútbol offensivo, con Maradona  che a 33 anni è al suo quarto Mondiale ,direttamente schierato dietro le punte. Finisce 4-0 con tripletta di Batistuta, ma il gol che ancora oggi ci è rimasto in memoria è il 3-0 di Diego, un gancio sinistro dal limite dell’area che arcua la sua traiettoria giusto in tempo per rientrare nel sette. Il grande Víctor Hugo Morales descrive l’azionissima col ritmo frenetico che gli è proprio, salvo esclamare «gol!» quando la folgore finisce all’incrocio, e lì fermarsi incredulo. Due, tre lunghi secondi perché il pozzo carichi, e poi parte un «goooool» dove le “o” non sono calcolabili. Molto tempo dopo, a grido ormai scemato, ripete due parole che gorgogliano nelle gole di tutti: «È vivo! È vivo!». Maradona è tornato, ed è lui stesso ad andare a urlarlo in una telecamera a bordo campo, l’immagine celebre in cui ruggisce a un palmo dal vetro, mentre dietro di lui, felici come bambini, stanno arrivando Batistuta, Chamot e Redondo.

La portata di quel gol è planetaria, le immagini faranno il giro del mondo , l’urlo di Diego nelle telecamere diventerà uno degli emblemi di quel mondiale. 

Nella partita seguente l’albiceleste si impone per 2-1 sulla Nigeria, ancora una volta una prestazione da incorniciare per Maradona sempre più trascinatore ed un’Argentina che si candida come una delle pretendenti al titolo.Risultati immagini per argentina maradona vs nigeria

Al termine della gara Diego viene sorteggiato nella lista dei controlli antidoping, un infermiera al triplice fischio lo scorta direttamente in sala medica. La squalifica di Diego è imminente. Immagine correlata

La hall dello Sheraton Park di Dallas potrebbe essere uno spazio adatto al parcheggio delle anime il giorno del giudizio universale. Immensa e altissima, una decina di piani ritmati dai terrazzamenti interni che si susseguono fino al soffitto lontano. Si capisce in fretta che la camera di Maradona è al settimo livello, perché è da lì che si affacciano i volti di pietra della security. Chi ha provato a salire fin lì con l’ascensore racconta di essere stato bruscamente invitato a tornare nella lobby. All’ora di pranzo la Selección è appena uscita per recarsi al Cotton Bowl, l’ aspetta la terza gara del girone, contro la Bulgaria di Stoichkov; ma dallo Sheraton si sono mossi in pochi, la storia del giorno non è certo allo stadio. È lì, al settimo piano, e nel bivacco dell’atrio più di 500 giornalisti aspettano pazienti un’occasione. 

Quella gara Maradona non la disputerà e l’Argentina visibilmente irriconoscibile poiché priva del suo leader, uscirà dal rettangolo sconfitta.

L’uscita di scena di Diego dal mondiale sancirà l’eliminazione dell’albiceleste ai quarti di finale ad opera della Romania di Hagi .Un Maradona letteralmente affranto davanti alle telecamere dell’emittente argentina Canal 13 dira’:

“Il medico della nazionale Ugalde, per salvarsi il posto, disse che lui non c’entrava niente. Io mi presi le responsabilità dell’operato di Cerrini…”

E ancora trattenendo le lacrime aggiungerà :

 “Mi hanno tagliato le gambe…”

Questa è la triste fine del Pibe de oro, di un icona apparentemente rinata e tornata a calpestare il palcoscenico del campionato del mondo per consacrare un mondiale che aveva già ricevuto , prima del suo inizio,  non poche critiche dai media vista l’assegnazione dell’evento agli Stati Uniti . Una nazione, , un paese che calcisticamente parlando fino ad allora con il soccer  ( cosi come lo chiamano negli States) aveva sempre fatto a pugni .

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Dal genio umano al degrado – Ascesa e declino del Pontiac Silverdome.

2017/12/07.

Le luci sono spente a Detroit. Le navi naufragano per un attimo di distrazione. Capitani poco coraggiosi, si schiantano su alte montagne bianche, iceberg persi nell’oceano sciagurato. Oppure incontrano bassi fondali, scogli affioranti e mai segnati sulle mappe. Intere città così spariscono nel nulla, in un attimo, sfrangiate tra le onde turbinanti. Un degrado che da un po ‘di anni a questa parte sembra non abbia mai bene.Risultati immagini per PONTIAC SILVERDOME

Ma c’è un altro tipo di catastrofe, molto più lenta, altrettanto irrecuperabile. Quella della marcescenza. Non basta la memoria per tenere un galla luoghi di una tale caratura, servire bensì istruzioni assiduo. E dopo il collasso, viene la rovina.

Pontiac: una città, un marchio, uno stadio.

Pontiac non è solo un marchio di automobili, né il nome di un potente capo indiano, scomunicato dalle pagine degli americani della storia. C’è e c’è una ridente cittadina, poco fuori Detroit, che si fregia di questo stesso appellativo fin dal remotissimo 1818, l’epoca di tardive colonie d’entroterra.Quindici soci di una grande compagnia, sotto la guida di  Solomon Sibley , ne decretarono il successo urbano, creando magazzini, stabilimenti e posti di lavoro. Pionieri! Nacque giustappunto attorno ad una ricca industria, questa fervida comunità: fin da principio, in un racconto luogo ricco di risorse naturali, si assemblavano strumenti di lavoro. Carri e carriole, catenacci e carrucole, titanici barili. Per un secolo di storia dei solerti costruttori, anche negli anni ’20 del XX, con grande sorpresa dell’intero mondo, non si scopre che si fa a meno del cavallo. Giunsero i motori, in generale, ed in particolare: la  General Motors. Che qui fondò la prima fabbrica, nel bel mezzo di una penisola meridionale, tra le due del Michigan, stato di tempeste, nevi e piogge prepotenti.

Fu come un fuoco, un’esplosione. La neonata industria dei trasporti a motore, che ebbe presto da suo padre nazionale, portò un aumento vertiginoso di popolazione. Il volume degli affari era talmente grande, così preponderante, che si cercavano soluzioni nuove per l’investimento. Vie asfaltate oppure erbose, strade proprio come questa. Nel 1934, una cordata di facoltosi industriali decise che la regione si meritava una squadra football, per il maggior prestigio dei presenti. Con i soldi della città intera dentro al portafoglio, molto presto la trovarono. Provenivano dall’Ohio, i Portsmouth Spartans, ed è una storia d’insuccessi e bancarotte. Con il piglio scaramantico, i loro benefattori li ribattezzarono “I Leoni” o meglio  Detroit Lions, dando i giusti meriti alla città più forte, vasta e popolosa dei dintorni. 

Nasce lo stadio: il Pontiac Silverdome

In principio i malcapitati giocatori, si allenavano nella spaziosa palestra della locale università. Poi ebbero qualche stadiuccio, in centro città, nulla di particolare. Finché non giunse un uomo, con un sogno ed un’idea: il suo nome era C. Don Davidson, atleta, soldato, architetto. Armato di una laurea conseguita presso la North Carolina State University, finanziata grazie ai meriti sportivi.

Una terra invernale necessita di strutture adeguate, sopratutto perché possano assemblarsi le gioiose moltitudini, da gennaio fino ad agosto, in autunno, inverno e primavera. Davidson, di ritorno nella natìa Pontiac nel 1965 dopo la sua trasferta accademica, aveva elaborato, in quegli anni, un complesso piano di rinnovamento urbanistico per la città, comprensivo di uno stadio senza precedenti. Diventato professore alla Detroit University, sfruttò la sua influenza per convincere le autorità locali a darsi una mossa, incluso William Clay Ford, l’allora proprietario dei Detroit Lions per mettere a disposizione dei tifosi e della città il primo stadio ufficiale. 

L’eroe ottenne, dunque, il suo finanziamento: circa 60 milioni di dollari (l’equivalente di attuali 244). Sotto la guida dello studio Hewlett & Luckenbach, sarebbe sorta la maestosa meraviglia: il Pontiac Metropolitan Stadium, destinato a diventare un giorno il Silverdome. L’elemento più straordinario del nuovo stadio, che stava per sorgere all’incrocio tra l’Interstate 75 e la Michigan Route 59,sarebbe stato il suo soffitto. Davidson, subito assunto come consulente, aveva concepito il progetto per quella che sarebbe stata, all’epoca, la più vasta cupola del mondo sostenuta ad aria. 

Il concetto di una struttura come questa è molto interessante. Basta un’impercettibile variazione nella pressione atmosferica, di un ambiente sufficientemente impermeabile all’aria, perché un vasto telo resti sospeso in alto, proteggendo il campo di gioco dalle minacce degli agenti atmosferici.Non occorrono colonne di sostegno, non ci sono limiti di estensione. Occorre solo un meccanismo a tenuta stagna collocato presso ciascuno degli ingressi, come la coppia di porte a vetri ben visibili nel video di apertura. Possenti ventole, nascoste nelle pareti di sostegno, si occuperanno di correggere le inevitabili infiltrazioni dall’esterno. La struttura era molto innovativa per l’epoca, con un sistema di cavi e di stoffa in fibra di vetro estesa per tutta l’estensione dell’area degli spalti. 

All’inaugurazione, si dice che il sole risplendesse sulla superficie della cupola in un modo tale da farla sembrare argentata, cosa che gli valse il soprannome Silverdome. La realtà, probabilmente, è che a nessuno facesse piacere di sentirla definita con il prosaico soprannome di “Ponmet”, abitudine che stava prendendo piede tra i visitatori. Era il 23 agosto del lontano 1975.Immagine correlata

1985: l’anno del lento declino

Venne poi il giorno della disgrazia: nel 1985, una forte tempesta di neve danneggiò i sostegni del tetto. Persa la pressurizzazione, l’intera struttura divenne concava, raccogliendo tonnellate di quest’ultima. Ben presto, tutto l’insieme venne giù, necessitando estensive riparazioni, dal costo complessivo di 8 milioni di dollari. La nuova versione del tetto fu comunque migliorata, in modo che qualcosa di simile non potesse succedere di nuovo, grazie a un poderoso sistema di riscaldamento.La struttura avrebbe retto per 25 anni. Poco dopo ci fu il Wrestlemania III, lo spettacolo che detenne il record di pubblico per un evento al chiuso fino al 2010, spodestato in seguito da una partita dell’NBA. Lo stadio fu sede nel 1994 di alcune partite del girone eliminatorio della Coppa del Mondo di calcio, proprio la nazionale a stelle e strisce giocò qui il suo match d’esordio nella competizione contro la Svizzera.Risultati immagini per pontiac silverdome stadium 1994

Mentre adesso, eccolo qui.

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Una conca per i pesci e gli aquiloni. A tale situazione siamo giunti gradualmente. La città di Detroit ed i suoi dintorni,  incluso l’area di Pontiac, hanno subito pesantemente per il lato oscuro della globalizzazione. Il progressivo spostarsi delle industrie nei paesi in via di sviluppo, con conseguente abbandono degli stabilimenti americani, creò quella che oggi viene definita Rust Belt (la cintura della ruggine) una vasta area di vestigia rovinate, residui della drastica modernità. Lo stadio Silverdome, in un clima di profonda crisi economica totale, venne venduto dall’amministrazione cittadina nel 2009, per la cifra ridicola di 550,000 dollari. Il “fortunato” acquirente fu il magnate di origini greche Andreas Apostolopoulos, proprietario di un’azienda di locazione edilizia con sede a Toronto, in Canada.

In tempi recenti, grazie ai suoi corposi investimenti di restauro, si è verificato un breve Rinascimento dello stadio: qualche incontro di boxe, concerti, monster trucks, partite amichevoli di calcio. Qui ha giocato, nel 2010, anche il nostro AC Milan, contro il  Panathinaikos durante la tournée americana. Ma gli spalti restavano vuoti sempre più spesso, con conseguente perdita nei costi di mantenimento. Nel 2012, a causa dell’ improvvisa rottura di una delle caldaie del sistema anti-accumulo di neve, il tetto è crollato nuovamente. La sua ricostruzione, ovviamente, avrebbe avuto un costo veramente proibitivo. Questo segna definitivamente la sua fine.

Avventurarsi in luoghi tanto derelitti aiuta a cogliere una prospettiva significativa. Che una tale meravigliosa della tecnica, oggetto dell’invidia di mezzo mondo, possa ridursi a simile rovina nel giro di due anni dimostra come tutto sia transitorio e semplice apparenza. La mano costruisce, però è l’occhio che mantiene. Una volta decaduta questa nostra civiltà, resterà le rovine ciclopiche di alte mura, come avvenne per gli Egizi e gli altri insigni predecessori? Oppure, trascinate dalla troppo grande ambizione strutturale, svaniranno tutte nella sabbia, nei rivoli di pioggia senza sentimenti? 

Difficile veramente darsi una risposta.Quello che è sicuro è che gli altoparlanti del Silverdome oggi non parlano più, le luci sono spente.  Da un po’ di tempo a questa parte la nostalgia dei suoi anni d’oro ha totalmente deciso di abitarlo mentre una fitta pioggia cade incessante sulle sue reliquie.

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Lo spareggio che valse il Mondiale: il cammino dell’albiceleste verso Usa ’94.

Il cammino che portò Maradona e compagni al mondiale americano fu pieno di insidie.

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In Sud america , la fase di qualificazione al mondiale è strutturata in due gironi che prevedono la classica modalità di andata e ritorno :

GRUPPO 1 : ARGENTINA , COLOMBIA ,PARAGUAY E PERU’ .

GRUPPO 2 : BRASILE, BOLIVIA,URUGUAY,ECUADOR ,VENEZUELA . 

Nel girone A la prima classificata si guadagna l’accesso diretto al mondiale, la seconda gioca lo spareggio contro la vincente della sfida CONCACAF-OFC .

Nel gruppo B invece si qualificano le prime due .

Il Cile resta escluso per lo scandalo Rojas verificatosi nella gara di qualificazione contro il Brasile in vista dell’edizione mondiale del 1990.

L’ultima partita del gruppo C tra Brasile e Cile fu sospesa al 70º minuto, dopo che Roberto Rojas, portiere della Nazionale cilena, si accasciò a terra al 69º, in seguito alla caduta di un bengala lanciato dalle tribune e diretto nelle sue vicinanze;[1] Rojas perde sangue dalla testa, e sostiene di non poter continuare l’incontro.[2] L’arbitro, l’argentino Loustau, non si avvicina per verificare la situazione, e i cileni abbandonano il campo per protesta, su decisione del vice-capitano Fernando Astengo. Il Brasile rischia pertanto la sconfitta a tavolino e l’esclusione d’ufficio dal Campionato mondiale 1990.Qualche giorno dopo viene pubblicata una foto del reporter Ricardo Alfieri, che mostra che il bengala è caduto dietro a Rojas, a una certa distanza dal portiere cileno; altre immagini dimostrano che Rojas, anziché allontanarsi dal fumo, vi si avvicina, e che inizia a sanguinare solo qualche decina di secondi dopo la caduta del fumogeno.

Una volta constatato che la ferita è larga pochi centimetri ed è provocata da un taglio netto di una lama, il Brasile protesta con la FIFA: viene così formata una apposita commissione (la Commissione Mosquera) con lo scopo d’indagare sugli avvenimenti dell’incontro del Marcana. Rojas infine confessa che la ferita è autoinflitta: aveva nascosto una lametta nei guanti, e aveva aspettato il momento propizio (giacché sapeva che la partita sarebbe stata molto accesa, e così i tifosi)per tagliarsi e simulare un colpo ricevuto da un oggetto lanciato dalle tribune. La FIFA squalificò a vita Rojas, e il Cile venne escluso dalle qualificazioni ad USA’94”

L’avventura dell’argentina comincia esattamente il 1 agosto 1993 nell’esordio con il Perù a Lima. La decide un gol di Gabriel Omar Batistuta e i primi 3 punti lasciano ben sperare in un cammino non troppo difficile.

La seconda sfida si gioca ad Asunciòn in Paraguay , finisce con un 3-1 per gli argentini e strada sempre più spianata. Alla fine del girone di andata L’albiceleste ha un bottino di 6 punti su 3 partite giocate , niente male come ruolino di marcia se non fosse proprio per i cugini colombiani , che giocheranno un brutto scherzo a Maradona e compagni.

Gli argentini si ripetono e partono con il piede giusto anche nel girone di ritorno , 2-1 al Perù , 0-0 con il Paraguay nelle due sfide giocate a Buenos Aires poi arriva la prova della verità.

Dopo la sconfitta nella fase di andata a Barranquilla contro la Colombia( unica persa) , il 5 settembre 1993 a Buenos Aires si gioca una delle partite più incredibili nella storia delle qualificazioni mondiali. Davanti a 53.000 spettatori nel tempio del calcio sudamericano l’ESTADIO MONUMENTAL gli argentini cercano il riscatto e si giocano la qualificazione diretta al mondiale. La perdente infatti dovrà affrontare in uno spareggio intercontinale la vincente tra Canada e Australia rispettivamente della Zona CONCACAF e OFC.Immagine correlata

“Una volta mi hanno detto che in questo secolo ci sono stati tre soli grandi avvenimenti, in Colombia: lo scoppio de La Violencia nel 1948, la pubblicazione di ‘Cent’anni di solitudine’ nel 1967 e la sconfitta per 5-0 dell’Argentina per mano della nazionale colombiana nel 1993. E sapete qual è la cosa peggiore? Che è tutto vero.”
(Gabriel García Márquez)

Dici Argentina e Colombia e in un baleno la mente viaggia da sola, approdando a due mondi profondamente differenti. Da una parte trovi l’estremità meridionale di quello straordinario universo di colori, popoli, sapori e odori che è l’America Latina, sul versante opposto sorge quella che del continente è la porta principale, un lembo di terra aggrappato a Panamá, all’altra America. Argentina-Colombia è una partita da mille scenari che non si riducono al campo di calcio: Argentina-Colombia “..es como decir el país de García Márquez y el país de Borges, la cumbia y el tango, el café y el bife de lomo, Valderrama y Maradona, el Batigol y El Tren, el calor y el frío, el Pacífico y el Atlántico…”

Le unisce un passato colmo di lacrime sotto il giogo del colonialismo iberico, di eccidi delle popolazioni indigene, le separa una distanza di tremila kilometri. Condividono un amore viscerale per il calcio, quel calcio che le pone una contro l’altra confinandole in un rettangolo verde. Talvolta capita per la semplice gloria personale, per corroborare un primato di imbattibilità: è il caso di un’ amichevole. Talvolta capita per estromettersi a vicenda nella dura contesa per la conquista di un trofeo: è il caso della Copa América. Talvolta capita per garantirsi il proprio posto nel torneo che ogni calciatore sogna di vincere: è il caso delle qualificazioni ai Mondiali.

5 Settembre 1993, spira un vento gelido a Buenos Aires, di quelli che fanno a fettine i volti degli impavidi passanti. Fa freddo, fa molto freddo. Al di sotto dell’equatore imperversa ancora l’inverno, le temperature scivolano sotto lo zero. Ma il pallone riscalda gli animi: oggi la nazionale di Alfio Basile raduna tutti i suoi seguaci alla cattedrale del calcio argentino, il “Monumental”, la casa del River Plate, il teatro del primo trionfo mondiale a tinte bianche e celesti. Oggi termina il girone di qualificazione ai Mondiali che saranno ospitati negli Stati Uniti, fatto questo senza precedenti nella storia del calcio: solo la prima classificata potrà levare le mani al cielo, la seconda dovrà pazientemente aspettare, dovrà giocarsi l’accesso ai Mondiali nello spareggio, tutt’altro che edificante per una nazionale sudamericana, contro la lontana Australia.

Queste le formazioni:

Argentina: Sergio Goycochea; Julio Saldaña, Jorge Borelli, Oscar Ruggeri, Ricardo Altamirano; Gustavo Zapata, Fernando Redondo (69′ Alberto Acosta), Diego Simeone, Leonardo Rodríguez (54′ Claudio García); Ramón Medina Bello, Gabriel Batistuta. All. Alfio Basile.
Colombia: Óscar Córdoba; Luis Herrera, Luis Perea, Alexis Mendoza, Wilson Pérez; Leonel Álvarez, Gabriel Gómez; Carlos Valderrama, Freddy Rincón, Fuastino Asprilla, Adolfo Valencia. All. Francisco Maturana.

uomo dal temperamento mite, dentista di professione: è tornata a disputare un Mondiale dopo ventotto lunghissimi anni di attesa, pratica un calcio attraente e spettacolare, puro piacere per gli esteti del pallone, che al tempo stesso si rivela foriero di risultati eccezionali. La Colombia è reduce da ben ventisei incontri ufficiali, dei quali solamente uno è coinciso con una sconfitta. Nel girone di qualificazione è andata in rete otto volte, mentre la retroguardia si è arresa soltanto all’argentino Medina Bello e al paraguayano Rivarola.

La vera forza della Colombia non è da considerarsi totalmente racchiusa nell’undici titolare, che sa difendersi con ordine senza disdegnare il gioco offensivo che manda le folle in visibilio: il primo posto in classifica compensa lo svantaggio del fattore ambientale. Ai cafeteros è sufficiente anche un misero pareggio per strappare un’altra qualificazione ai Mondiali, la seconda consecutiva. Basterebbe sigillare ermeticamente la difesa, rinunciare a mandare in visibilio la folla con i passaggi rapidi e giocate di classe, ripiegarsi su sé stessi. Praticare l’anticalcio. Ma la storia prenderà ben altra piega.

Si respira un’aria tesa. Argentina-Colombia è il drammatico spareggio per la sovranità in uno dei due gironi di qualificazione.Non è solo il paese di Asprilla, Higuita e Valderrama, la Colombia. Anzi: oramai è diventata la terra dei cartelli della droga di Bogotá, Cali e Medellín, il regno di Pablo Escobar. Resa inquieta dalle diversità sociali, strozzata dall’aspro duello tra Stato e trafficanti di cocaina, ostaggio del terrore, la Colombia riscopre la gioia di vivere grazie alla sua nazionale di calcio, attorno alla quale si stringe l’intero paese e che unisce tutti, anche quanti nella vita di tutti i giorni sono acerrimi nemici. Una nazionale temuta e rispettata, tanto dai semplici avventori dei bar di Buenos Aires quanto da voci ben più autorevoli.

Eppure gli spalti del “Monumental” sono un meraviglioso affresco dalle tonalità cerulee: è tutto dipinto di bianco e di celeste.

La formazione colombiana guidata dal CT Maturana travolge incredibilmente l’Argentina con un sonoro 0-5 gettando il maestoso pubblico dell’albiceleste nello sconforto totale.

I Colombiani conducono una partita sensazionale , Il pubblico del “Monumental” ha smesso di rumoreggiare, di far baccano: quei due gol, segnati quattro minuti prima ed altrettanti minuti dopo l’intervallo, hanno rubato le loro corde vocali. E allora la Colombia, da vittima sacrificale da dare in pasto agli argentini, inizia a vestire i panni dell’ospite invitato ad onorare un pranzo luculliano.Risultati immagini per argentina vs colombia 0-5

Furono svariate le critiche che tergi versarono sui giornali il giorno seguente, qualcosa era andato storto, una formazione totalmente disorganizzata e irriconoscibile quella argentina cadde sotto il gioco di una Colombia che macinava gioco , si divertiva e faceva divertire.

 

L’Argentina è ammutolita . Davanti al pubblico di casa nessuno mai avrebbe pensato in una delle più grosse capitolazioni della storia.

Cala il sipario su una notte totalmente da dimenticare per gli argentini e che entrerà invece  nella memoria di tutti i colombiani. Per l’Argentina si profila adesso l’incubo dello spareggio contro l’Australia che ha appena eliminato il Canada. Risultati immagini per argentina vs australia 1993

 

La partita di andata si gioca a Sydney il  31 Ottobre 1993 , Balbo porta avanti i suoi , Vidmar pareggia i conti allo scadere del Full time. Per l’Argentina qualificazione sempre più a  rischio , tutto si decide nella gara di ritorno.

IL 17 Novembre si gioca a Buenos Aires la gara di ritorno, ancora una volta il palcoscenico di gioco è quello del Monumental.  Gli argentini inneggiano con bandiere , coriandoli “Vamo Argentina” cosi come fanno i giocatori nel sottopassaggio pochi minuti prima dell’ingresso in campo.

 

Il primo tempo si chiude a reti inviolate . Al 15′ minuto della ripresa Redondo salta un avversario e scarica per Hugo Perez che lancia con un rasoterra Batistuta in profondità. Quest’ultimo seppur marcato dall’australiano Tobin , si gira da posizione defilata e calcia in porta. La palla prende un effetto strano, si impenna e sorprende l’estremo difensore Australiano con un incredibile pallonetto. 1-0. Il Boato del Monumental è da pelle d’oca….

Il risultato resterà invariato fino al termine della gara , al triplice fischio finalmente l’ Argentina può tirare un sospiro di sollievo, qualificazione raggiunta e via ai festeggiamenti.Risultati immagini per australia vs argentina 1993

Le vicende che seguiranno al Mondiale in seguito alla squalifica Di Diego Armando Maradona trovato positivo all’efedrina (sostanza dopante) lascerà per anni lunghi strascichi che si ripercuoteranno anche nelle edizioni successive portando ad  una maggiore rigidità nei test antidoping; ma questo è altro , quello che volevamo ricordare è stato il cammino che ha portato Diego e compagni al mondiale americano.

Senza dubbio è già nostalgia.

 

C’ERA UNA VOLTA IL SUPERDEPOR.

C’era una volta una squadra invincibile. Un team colmo di fuoriclasse che dettava legge in tutta Europa, lasciando dietro di sé tracce di gioco dominante e timore reverenziale in egual misura. C’era una volta il Milan di Ancelotti. Prima che incontrasse il più inspiegabile incubo della sua epopea continentale: il Deportivo La Coruña di Irureta.

Il Deportivo La Coruña di Pandiani e Luque, Djalminha e Valerón, Víctor e Mauro Silva e di quel tecnico con un nome che ricorda da vicino un santuario spagnolo: Javier Iruretagoyena Amiano.Per tutti, semplicemente Irureta: regista e mente dietro una delle più grandi imprese che il calcio europeo ricordi.

l Deportivo La Coruña è ormai una squadra che ha già dato il meglio di sé da qualche anno e che è riuscita a costruirsi una fama grazie a straordinarie prestazioni nello stadio di casa, il Riazor.Merito dell’orgoglioso e tambureggiante pubblico galiziano e di una squadra imprevedibile e ricca di talento, un team che in poche stagioni si è meritato sul campo l’eloquente appellativo di SuperDepor.

In Galizia, terra di confine e asprezze, anche il calcio è esercizio di sofferenza e passione. Da queste parti il gioco e la squadra rispecchiano una regione estrema, costantemente dimenticata in favore delle grandi metropoli dominanti in territorio iberico: Madrid e Barcellona. Una squadra sorprendente, nata per dimostrare che il calcio è manifestazione diretta di una comunità, di un orgoglio popolare. Quello dei galiziani e dei loro Blanquiazules.Risultati immagini per deportivo tifosi

Una storia di provincia che inizia negli anni ’90 per terminare all’apice, nella serata più folle e memorabile del calcio galiziano: 7 aprile 2004. Il canto del cigno del Deportivo. Un arrivederci ai grandi palcoscenici internazionali con una prestazione che rimarrà nella storia del gioco. Un monumentale 4-0 al Milan campione d’Europa.

Nessuno mai avrebbe scommesso , su un crollo dei vice campioni europei, o forse meglio dire, su quella che fu una prestazione impeccabile  da parte dei galiziani. Non una partita qualsiasi, bensi una di quelle che va oltre la dimensione del calcio giocato per scrivere una pagina di racconto che per certi tratti sconfina nel mito narrativo di Davide contro Golia.

 In Galizia s’impara fin da subito a convivere con una terra sferzata da venti gelidi, mari agitati e lunghi silenzi affacciati sull’Atlantico. Vivendo un passo alla volta, non facendosi mai travolgere dalle correnti. Una filosofia di vita che, ormai da anni, trova la sua ideale applicazione al Riazor.

E Irureta è il timoniere perfetto per manovrare un team così estremo. Un allenatore esperto, che modella la sua creatura su un’impronta ben definita: il Deportivo è una struttura uniforme, un’entità tattica che vive su un 4-2-3-1 elastico.

In rampa di lancio va un terminale offensivo dal soprannome illuminante, El RifleLa carabina. Il fucile di precisione arriva dall’Uruguay e si chiama Walter Pandiani. È l’artillero perfetto per il meccanismo di Irureta, che lo circonda di una batteria di mezzepunte e ali che sfornano assist ad alta intensità di gioco: Valerón, Víctor e Luque, senza scordare quell’incredibile giocoliere part-time che risponde al nome di Djalminha, la versione baffuta e speculare di Denilson .

Sono soprattutto loro gli uomini del miracolo del Riazor. Un quartetto che suona uno spartito ripetitivo e adrenalinico. Quella sera le maglie bianco-blu sbucano da ogni angolo, come impossessate da un furore agonistico quasi inspiegabile. Anche perché, dopo il 4-1 in scioltezza di San Siro, il Milan si aspetta una notte di controllo e pura formalità per accedere alle semifinali. Ma quella partita è un vero massacro.

È il mercoledì da leoni di La Coruña. Il pubblico ci crede fin dall’inizio, spingendo il Depor con una bolgia assordante, un frastuono stordente. Irureta, dopo il fragoroso schianto dell’andata, sembra meno convinto di quella che appare più come un’utopia che una speranza:

“Se in qualche modo riusciremo a rimontare contro il Milan, mi farò il cammino di Santiago a piedi.”

Quel 7 aprile l’ottovolante galiziano viaggia su ritmi forsennati, tanto che lo stesso Pirlo qualche anno dopo getterà (vaghe) ombre di doping in un’intervista rilasciata ai media italiani riguardo quella sconfitta.

“Non sono in possesso di prove, per cui la mia non è un’accusa, mai mi permetterei di formularla. Semplicemente è un pensiero cattivo che mi sono concesso, però per la prima e unica volta nella vita mi è venuto il dubbio che qualcuno sul mio stesso campo potesse essersi dopato. Forse è solo la rabbia di un momento non ancora riassorbita. Ma i calciatori del Deportivo erano scheggie impazzite, assatanati. Galoppavano verso un traguardo che solo loro intuivano.”

Pandiani , dopo l’illusorio gol d’apertura nel match d’andata ,replica con una girata mancina dal limite, facendosi beffe di un certo Paolo Maldini. È il 5° minuto ed è 1-0: da qui inizia il cammino del Diavolo verso i gironi dell’Inferno.

Víctor è una scheggia imprendibile sulla destra; Valerón fa intuire perché in Galizia i tifosi lo chiamino El Dios, disegnando calcio sulla trequarti con la scioltezza e la padronanza tecnica di un fuoriclasse; Luque è una sorta di rullo compressore che schiaccia costantemente Cafù, ridicolizzandolo in più occasioni.

Il 2-0 è inevitabile ed è figlio di un’uscita sciagurata di Dida. Nelson ha abituato il pubblico a bizzarri black-out psicologici e stavolta la combina grossa sul cross di Luque, appoggiato docilmente in rete dal fantasista gallego. Il Riazor ribolle e sente vicina quell’impresa “che solo loro intuivano.” Il 3-0 che garantirebbe le semifinali è mera questione di tempo.

E arriva nel momento peggiore per i rossoneri: al 45°, ad un soffio dal riposo. Luque se ne va sulla fascia sinistra bruciando Cafù e scaricando un mancino terrificante che fa saltare definitivamente il banco. Il resto della partita è uno spettacolo fatto di ritmo altissimo (da una parte) e giocate improvvise che chiamano all’azione offensiva quasi tutti i calciatori galiziani. Il definitivo 4-0 lo mette a referto il subentrato Fran, vecchia ala destra simbolo della cantera gallega. Entrano Serginho, Rui Costa e Inzaghi, ma è tutto inutile. Una cappa d’incredulità e disarmo avvolge il campo, mentre gli spalti del Riazor furoreggiano e vorrebbero che quella partita non finisse mai.Risultati immagini per deportivo vs milan

Il Depor è tornato Super, anzi, qualcosa di più. Stavolta è andato oltre, scrivendo la storia del calcio e delle rimonte impossibili. Quella di una piccola città di pescatori che trionfa su una metropoli pluri-milionaria del calcio europeo. Sarà anche l’ultima vera esibizione di livello internazionale all’interno di quello stadio caloroso ; in semifinale i Blanquiazules verranno spediti fuori da un Porto arcigno ed equilibratissimo, con uno 0-1 che li condannerà proprio al Riazor.

E saranno proprio i Dragoes ad aprire un’altra stagione di sorprese continentali sull’Atlantico, soltanto pochi chilometri più a sud. La nascita di una nuova epoca , quella di José Mourinho e il suo calcio straordinariamente pragmatico.

Un passaggio di consegne che vedrà il Deportivo sparire progressivamente dal palcoscenico più prestigioso, arrivando addirittura a retrocedere in Segunda Division pochi anni dopo. Una meteora. Un tornado che ha lasciato il segno spegnendosi lentamente al largo.

Oggi le luci del Riazor sono spente il mercoledì sera. Il Deportivo suda in fondo alla Liga per non retrocedere per l’ennesima volta. La grande onda è ormai passata, ma forse nessuno mai l’ha cavalcata come il SuperDepor.

“Un sogno a quattro stelle nello scrigno di Leicester.”

Ci sono vari tipi di sogni, o per meglio dire,  da un lato c’è quel tipo di sogno che giudichi inarrivabile ,  dall’ altro quello su cui riponi le tue speranze e cominci a credere che in qualche modo possa un giorno avverarsi e diventare realtà. Il sogno comunque sia è ormai una costante per l’ uomo moderno nonché ciò che smuove il suo futuro proprio perché questo ” animale razionale ” di giorno in giorno viaggia con la mente sognando di incontrare e abbracciare la pienezza della sua libertà , di arrivare a sentire il piacere e quindi la sua personalità finalmente realizzata.

Talvolta si dice che sognare troppo provochi disturbi, generi malessere in quanto il sogno tende ad allontanare l’ individuo dalla realtà ed allora la medicina di cura  è una sola: prendi un sogno e scommetti sopra di esso tutto ciò che sei di meglio.

2 Maggio 2016. Da qualche parte nel mondo si festeggia un sogno che è appena diventato realtà. Siamo nel cuore della Bretagna , bensì nella capitale Londra  . Il Leicester guidato dal tecnico italiano Claudio Ranieri ha appena scritto una nuova pagina di storia del calcio inglese , compiendo una funambolica impresa, e laureandosi campione d’ Inghilterra  con ben due giornate d’ anticipo.

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Un giorno indimenticabile, una data storica nel calendario calcistico inglese. E’ così perché lo sport è vita e come tale insegna a piangere , gioire, esultare, sognare e vincere.

In questo 2 Maggio 2016 la storia del calcio ha conosciuto un ‘ altro gruppo di ” eroi” se cosi vogliamo definirli . Si perché partiti come una squadra di scarti calcistici ed esistenziali , sono riusciti contro ogni pronostico a ribaltare le sorti, spazzando via tutte le voci e le leggi manageriali di un calcio  che da qualche anno a questa parte fatica a ritrovarsi. Il timoniere del gruppo è un italiano come ho già sottolineato, Claudio Ranieri e la sua ciurma è composta da uomini come il goleador Vardy , che appena pochi anni prima si guadagnava da vivere con un contratto part-time in fabbrica, oppure ” la farfalla blu” Mahrez  che praticava calcio nei campi amatoriali di periferia. Se poi vogliamo andare avanti, si aggiungono i due pilastri difensivi Huth e capitan Morgan , che all’ inizio dell’ anno gli stessi giornali inglesi ridicolizzavano definendoli più una “coppia di buttafuori” che una coppia di centrali.

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Questi ragazzi adesso stanno vivendo a pieno  il loro sogno. Il raggiungimento di un obbiettivo così grande li ha resi più forti e soprattutto ha fatto riflettere i grandi e ” le Grandi”  compagini europee , sul fatto che ” sognare” allora a volte non è poi così lontano dalla realtà e persino quello che può apparire come un traguardo irraggiungibile, alla fine dei conti è molto più vicino di quel che sembra.

Ricorderemo tutti questo 2 Maggio come un giorno memorabile , per svariati motivi che vanno anche al di là della conquista del titolo del Leicester. In primis i suoi giocatori , raffigurano un po’ tutti i calciatori dilettanti e amatoriali del mondo , i campetti trasandati, le periferie calcistiche abbandonate  più lontane, i palloni bucati e le scarpe strappate di chi nonostante tutto continua a correre dietro una palla,inseguendo un sogno.

E’ stata una risposta, ad un calcio offuscato e pieno di pregiudizi , un macigno caduto sulla testa di chi ha sempre visto questo mondo , come un mezzo per fare affari . Il segno del ribaltamento, lo scatenarsi di quell’uragano nato nel lontano 1884 ad opera di un gruppo di ragazzi della Wyggeston School . il cosi chiamato Uragano Leicester.

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Così nello scrigno di questa cittadina, un sogno a quattro stelle ha cominciato ad affiorare pian piano , lentamente , minuto dopo minuto, partita dopo partita fino ad arrivare al trionfo che oggi sta’ la’ stampato nei sorrisi e nei volti di chi con un pizzico di follia non ha mai smesso di credere che l’impossibile potesse un giorno diventar pura realtà.

ISLANDA. Il calcio ai confini del mondo.

Quando gli islandesi escono di casa non vedono solo le stelle, ma aurore boreali.Quando gli altri hanno un eclissi parziale, loro  totale.Gli inglesi hanno il ruggito di Wembley , gli islandesi il rumore delle cascate.Vivono in un posto unico se ci vai in vacanza , un po’ più complicato se ti ci devi svegliare ogni mattina.Eppure sono lì a far paura alle grandi d’ Europa , un po’ come la loro natura.Da queste parti si inizia a giocare a calcio all’età di 3 anni, se sei bravo giochi, se non lo sei giochi lo stesso.Tutti hanno un’ opportunità , sono troppo pochi e troppo intelligenti per fare selezione già tra i bimbi.I bambini islandesi vivono in un ottimo sistema sociale, quindi non solo dal punto di vista calcistico,godono di ottima salute e questo è ciò che gli permette di dedicarsi con piena serenità a questo sport.Una decina di anni fa il colpo di genio: “Se vogliamo che i nostri bimbi imparino a giocare a calcio, cessiamo di fargli calciare un pallone su quei tappeti innevati.”

Il calcio in Islanda è praticato per lo più in ambienti e strutture chiuse viste le rigide temperature invernali e le non troppo alte temperature estive.I giocatori dell’ attuale nazionale,sono stati i primi a sfruttare per gli allenamenti gli impianti coperti, per lo più in erba sintetica. Proprio per questo sono cresciuti così tanto tecnicamente al punto di vedere differenze di gioco abissali con quelli degli anni ’90.

Paesaggi montuosi  ed innevati ,scogliere a picco sul mare fanno dell Islanda un isola fredda non solo dal punto di vista climatoriale ma anche in particolare da quello visivo. Il primo impatto che si ha di questa terra è di fatto quello di una landa desolata, fatta eccezione per la capitale, ricoperta da nevi e qualche gyser che attualmente costituiscono una delle principali fonti di attrazione per il turismo di questo paese. Si parla una lingua che sembrerebbe avvicinarsi molto ad uno dei diletti danesi, ma resta comunque una lingua nordica tutta loro ,per questo infatti l ‘inglese è insegnato fin dall’ asilo. Tutta la nazione è unita e lavoro per migliorare il proprio sistema sportivo. L’islanda è pazza per il calcio, tutti guardano la Champions league e gli altri campionati europei; questo a dimostrazione del forte interesse verso questo sport.

Una nazione che conta 321.000 abitanti di cui gran parte di questi risiede nella capitale Reykyavik, città storica e simbolo del paese. Una città la cui grandezza è paragonabile ad uno dei quartieri delle grandi città d’Europa dove il calcio però è cresciuto molto negli ultimi anni aprendo i suoi orizzonti al palcoscenico europeo. Cosi la nazionale islandese sembra vivere uno dei momenti più prolifici della sua esistenza, la mancata qualificazione all’ ultimo mondiale è stata riscattata da quella ottenuta pochi giorni fa che le ha aperto le porte all’ europeo di Francia 2016. L’ allenatore è un certo Lars Lagerbäck , che vanta già esperienze alla guida della nazionale di Ibrahimovic e di quella nigeriana. Tuttavia lavorano in questo sistema anche spagnoli, inglesi proprio perché il calcio islandese si è ispirato ed ha preso spunto dalle grandi culture calcistiche europee.

 

Il calcio islandese come già detto è cresciuto molto negli ultimi anni, e si è fatto conoscere in europa sebbene gran parte dei suoi giocatori vi giocassero già qui. Basti pensare al nome di Gudjohnsen forse il giocatore più conosciuto che si affermò al Chelsea e poi campione d’ europa con i catalani del Barcellona.Un calcio emergente e che ha voglia di farsi conoscere al mondo intero.In Islanda qualunque bimbo coltiva il sogno di giocare a calcio ed affermarsi. In Islanda , nonostante  le grandi bufere di neve ricoprano interamente i campi di gioco durante la stagione invernale, non si smette mai di giocare a calcio continuando a coltivare il sogno di giorno in giorno.

L’Europa ormai si è accorta di loro, di questi ragazzi che però in Europa ci giocano già. In Premier league come Sigurðsson allo Swansea , in Olanda dove Sigþórsson è il centravanti dell’ Ajax . Sono il paese con il più alto numero di partecipanti allo stadio. In Islanda tutti vanno allo stadio a tifare la propria nazionale che ha un complesso tutto suo nel cuore di Reykyavik. E’ un po’ la scatola dei sogni perché qui hanno superato Olanda e Turchia.Tuttavia pur essendo cresciuti dal punto di vista tecnico, non hanno ancora una filosofia di gioco radicata e prima dell’ arrivo di Lagerbäck   il calcio in Islanda non era poi così sviluppato.

La partecipazione ad un europeo o mondiale che sia, resta sempre un evento speciale, nel caso dell’ Islanda lo ancor di più.L’ idea di vederli ad Euro 2016 è qualcosa di straordinario, un po’ come uno dei loro proverbi: “Se ti perdi in una foresta islandese , alzati in piedi e troverai la strada di casa.” Per forza, di foreste in Islanda non se ne vedono. Descritti come un popolo “freddo” come farebbe sembrare la loro lingua , son tutt’altro. Sono scaltri ed ironici, prontissimi a salpare da quell’isola sperduta per attraccare sulle spiagge del football che conta.Non hanno mai giocato un europeo o un mondiale.Il coraggio non manca , la voglia di sognare neanche ; correndo dietro ad un pallone lassù, in alto , ai confini del mondo.

 

 

 

 

“Victor hugo Morales, Maradona e l’ acquilone cosmico.”

vh“..la va a tocar para Diego, ahí la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del fútbol mundial, y deja el tendal y va a tocar para Burruchaga… ¡Siempre Maradona! ¡Genio! ¡Genio! ¡Genio! ta-ta-ta-ta-ta-ta… Goooooool… Gooooool… ¡Quiero llorar! ¡Dios Santo, viva el fútbol! ¡Golaaaaaaazooooooo! ¡Diegooooooool! ¡Maradona! Es para llorar, perdónenme … Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos… barrilete cósmico… ¿de qué planeta viniste? ¡Para dejar en el camino a tanto inglés! ¡Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina!… Argentina 2 – Inglaterra 0… Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona… Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2 – Inglaterra 0. ”

Victor Hugo Morales non è mai stato soltanto una voce. Ha scritto due autobiografie, rilasciato un centinaio di interviste, e in un certo senso può essere considerato uno dei grandi narratori del nostro secolo. Di sé ha detto: «Sono un attore e ci credo. Nelle sue radiocronache c’è sempre un guizzo, e un’immagine appare nella testa di chi lo sta ascoltando. Ha rotto il paradigma del racconto calcistico ispirandosi alla letteratura, nessuno lo aveva mai fatto prima di lui. Victor Hugo Morales ha una memoria prodigiosa. Chi lo conosce dice che può citare interi passaggi di libri o formazioni calcistiche con la stessa facilità. Da ragazzo giocava a calcio nei dilettanti. Poi, a quindici anni, ha capito che non era la sua professione perché non era abbastanza forte. Allora ci ha provato con il basket, ma l’artrosi alle ginocchia lo ha fatto virare al tennis. Ci ha giocato a lungo, quasi ogni giorno, perché lui, Victor Hugo, è uno che ama la competizione. In una lunga intervista rilasciata nel 2012  ha detto: «Le bandiere danno un senso alla mia vita, però prendere parte visceralmente a una cosa ti porta a commettere errori e ad agire per vanità. Io sono per prendere posizioni e ne sono contento. Ha iniziato la carriera giornalistica quando aveva sedici anni, era il 20 aprile del 1964 e a Colonia Radio, in Uruguay, cercavano dei ragazzi. Ha fatto tutto, ma la gavetta è durata il tempo necessario. A soli diciotto anni, dopo aver commentato un incontro tra il Nacional de Montevideo e una selezione giovanile argentina, viene assunto. Nasce a Cordona, un paesino di circa seimila abitanti , ma predilige fin da subito le grandi città, la frenesia, la gente. Non ama la tecnologia , si limitava a rispondere  al telefono e spegner la luce, tutto qua. Ma non per questo Victor Hugo Morales è un anticonformista, ha solo un po’ di nostalgia per il mondo com’era una volta, quando la gente non stava davanti alla televisione ma si riuniva, usciva, condivideva porzioni di reale o immaginazioni radiofoniche. Da giovane, in Uruguay, dopo la morte di Carlos Solé, il più grande commentatore dell’epoca, Victor Hugo non ci ha messo molto a prendersi il trono e la corona. Era un ribelle,  girava i bar, viveva la notte, le partite e la musica. L’incontro con Maradona è arrivato dopo. E Victor Hugo è andato a cercarselo.http://www.youtube.com/watch?v=1wVho3I0NtU.

Quando Victor Hugo si trasferisce in Argentina, Maradona inizia a giocare nel Boca. Così, per il commentatore uruguaiano è stato facile diventare il più grande di tutti. Al debutto come radiocronista el Pibe ne segna due. Uno su calcio di rigore. E Victor Hugo commenta: «Ha lasciato andare il pallone come una lacrima». Una volta Maradona ne fa un altro contro la Fiorentina. E Victor Hugo: «Se Michelangelo lo vedesse, lo dipingerebbe». Ma il capolavoro passato alla storia coincide con quello di Diego Armando Maradona: il gol segnato dall’attaccante argentino all’Inghilterra. Stadio Azteca di Città del Messico,22 Giugno 1986; a un certo punto di quel pomeriggio, Maradona prende palla a centrocampo, guarda l’infinito, punta il portiere e parte in quella cavalcata solitaria che è ormai un classico. La voce di Victor Hugo Morales accetta la sfida della velocità, non rincorre, si adegua, cresce passo dopo passo, tocco dopo tocco, decisa a seguire i movimenti di Maradona. Non sembra aver bisogno di ossigeno: le parole sono il suo ossigeno. Trascende. Dice: «Genio, genio, ta ta ta ta».Non descrive, non narra. Ma continua. A un certo punto: «¡De qué planeta viniste, barrilete cosmico!». Aquilone cosmico, un’espressione che da allora lo accompagna e lo copre di un aria magica ancora oggi percepibile mentre lo sentiamo scandire quelle parole.

Quello che viene da chiedersi è : Perché entra nella storia? Perché quella radiocronaca ci emoziona enormemente e anche a distanza di così tanti anni?

“C’è stato un tempo che, prima del gol, mi sembrava che qualcuno mi stesse filmando correndo nudo e ubriaco per strada. Avevo paura di raccontarmi e parlare in quel modo”, ci rivela lo stesso Victor Hugo poco prima di confessarci cosa abbia in realtà rappresentato per lui il gol di Diego:”Quel gol è come uno spogliarello spirituale”.È il gol che gli ha cambiato la vita. È il gol più visto della storia, e la sua radiocronaca la più ascoltata. È stata tradotta in quasi tutte le lingue del mondo e ancora oggi le visualizzazioni su You Tube aumentano e rendono omaggio ad una delle voci più incredibili del panorama calcistico sud americano.

Poi , si arriva al gol perfetto, si il gol che Victor Hugo decide di abbracciare con lo stesso calore di un padre che abbraccia il figlio tornato da un lungo viaggio. Quello dell’ Argentina alla Grecia nel mondiale americano. E come lo fa vi chiederete? Lo fa in modo straordinario,  nominando tutti i giocatori dell’ azione per poi arrivare al solito nome Diego Maradona, l’ultimo gol del Pibe  de oro in un mondiale.http://www.youtube.com/watch?v=jyekACZBMeU.

Da quel giorno di giugno, in Messico, ventotto anni sono trascorsi. Maradona è da tempo un ex che brilla nell’eternità, e anche la voce di Victor Hugo Morales sta invecchiando. Telesur, la televisione venezuelana, ha messo in piedi un programma di approfondimento per i Mondiali in Brasile. Victor Hugo Morales e Maradona non commenteranno le gare in diretta, il loro sarà un programma di analisi, un misto tra calcio e politica. Lo spot promozionale della trasmissione è ovviamente il filmato del gol di Maradona contro l’Inghilterra e l’audio è quello di Morales. Ma l’incontro tra il vecchio commentatore uruguagio e il Pibe de oro con le rughe e con i capelli bianchi, lì, insieme, allo stesso Campionato del Mondo, rappresenta comunque molte, nostalgiche metafore. È come se il personaggio di un grande romanzo incontrasse il suo narratore.Del resto, c’è qualcosa di indissolubile che lega quel gesto marziano al racconto che proviene dalle viscere dell’immaginazione di Victor Hugo. Sebbene possano vivere l’uno senza l’altro, è però insieme che germogliano grandiosità. E bisognerà inevitabilmente aspettare che questo secolo finisca, che un pallone attraversi il cielo come un “barrilete cosmico”, per sapere chi e come segnerà un nuovo gol per la storia di questi cento anni.La storia sostituisce la storia, prima o poi il gol del secolo andrà in pensione. E chissà che siano proprio loro a dircelo.vh

“La scalata verso l’Olimpo.”

La storia porta con sé ricordi e nostalgie. Spesso tendiamo ad associare la parola storia ai libri di scuola, non considerando che ovunque e nella vita di tutti giorni ci sono frammenti di essa. Cosi è anche nello sport.

In questo capitolo volevo soffermarmi su un particolare momento, forse meglio dire trionfo, che ha segnato senza dubbio la storia del calcio.

Il 12 giugno 2004 segna la data d’inizio della 12 edizione dei campionati europei di calcio, per la prima volta ospitati dal Portogallo.

La partita che inaugura il torneo vede affrontarsi la nazionale di casa contro la debuttante compagine ellenica. Nessuno poteva immaginare che quella di fatto sarebbe stata la finale di euro 2004.

Ancora più difficile forse credere che per la prima volta nella storia di questo sport, la nazionale greca avrebbe conquistato il tetto d’europa.

La partita d’inaugurazione segna subito un campanello d’allarme per i lusitani che escono dal rettangolo sconfitti per 2 reti a 1.

Nel secondo incontro il Portogallo batte i russi per 2 a 0 mentre i greci continuano a stupire strappando addirittura un pareggio contro la corazzata spagnola. Grazie alla vittoria conquistata nel terzo incontro a spese della Spagna, i lusitani non tradiscono le aspettative aggiudicandosi con 6 punti la vittoria del girone e il passaggio ai quarti. Resta ancora tutto in bilico per la Grecia che deve rimandare i festeggiamenti all’ultima giornata, nella partita contro la Russia.La Spagna dal canto suo , dopo la sconfitta subita dai cugini portoghesi resta concentrata e ripone le proprie speranze di qualificazione proprio sul risultato di Grecia -Russia. I russi vanno in doppio vantaggio ma a 2′ minuti dal termine gli ellenici mettono a segno la rete che che consente loro, pur avendo perso, di pareggiare la differenza reti con la roja ed a sorpresa eliminarla. Sulle ali dell’ entusiasmo la Grecia , guidata dal suo capitano Theodoros Zagorakis si prepara a compiere una delle imprese più grandi di sempre.

24 giugno 2004 . Quarti di finale . Il Portogallo affronta l’Inghilterra mentre il giorno seguente la Grecia dovrà vedersela con Zidane e compagni . Prima  El Estadio da Luz e poi el Estadio José Alvalade saranno il palcoscenico ideale di due notti magiche e piene di sorprese.

Nella prima partita , gli inglesi passano in vantaggio dopo soli 2’min. I lusitani non demordono e acciuffano il pari a 7’min dallo scadere del tempo regolamentare. Si va ai supplementari . La tensione aumenta.  Al 110′ Rui Costa trova il gol del vantaggio che fa sognare la nazionale di Scolari. Ma Lampard non ci sta, e pareggia i conti 5′ min dopo. I calci di rigore di fatto decreteranno la prima semifinalista. Sotto gli occhi dei 62’000 spettatori , a salire in cattedra è il portiere Ricardo che prima para il tiro di Vassel e poi realizza il rigore definitivo, che manda il Portogallo diritto alle semifinali.

Non tanto più facile è l’ avversario che ostacola la Grecia nel cammino verso il sogno chiamato “Finale”. Zidane e compagni dopo l’ ultimo titolo europeo conquistato nell’ edizione del 2000 , appaiono determinati a riconfermare la  supremazia transalpina nel continente. La partita però si rivela piuttosto noiosa con entrambe le squadre che si limitano a cercar di non subire reti.

Al 65′ minuto però la stella ellenica Angelos Charisteas  lasciato solo in area , vola più alto di tutti sul cross di Zagorakis , impattando di testa e spezzando così il sogno francese.Grecia in semifinale .Un paese intero in delirio. Comunque vada la nazionale ellenica aveva raggiunto già uno dei suoi traguardi storici. Mai nella storia di questo sport infatti era accaduto che la nazionale dei guerrieri fosse riuscita in simili imprese.

In semifinale si respira un clima diverso. Gli ellenici ad un passo dal sogno provano a giocare un brutto scherzetto ai favoriti della Rep.Ceca.Si gioca ad Oporto , all’ Estadio  do Dragao e  negl’ occhi del c.t Otto Rehhagel si legge l’emozione e la determinazione di chi fino all’ ultimo continua a contemplare la porta dell’ Olimpo. Un sogno impossibile? Non adesso.Non ora che si era giunti fin qui.

I 90′ minuti si chiudono a reti inviolate giungendo quindi ai tempi supplementari con la regola del silver goal. Il sogno greco diventa realtà al 105′ quando Dellas , sugli sviluppi di un calcio d’ angolo ,trova il modo di scardinare la difesa ceca con un colpo di testa che non lascia scampo a  Čech e compagni. E’ finale! Le facce incredule dei tifosi cechi e i volti gioiosi dei giocatori ellenici e della loro tifoseria lasciano facilmente intuire quanto questo sport sia pieno di opposti.La gioia e la delusione. La vittoria e la sconfitta. Il gatto ed il topo. A quanto pare però non sempre è il gatto a giocare col topo.

Nell’ altra semifinale i lusitani liquidano 2-1 l’ Olanda di Van Nistelrooy e strappano il biglietto per la finale di Lisbona.

4 luglio: Portogallo e Grecia si ritrovano contro 22 giorni dopo la gara inaugurale del torneo: questa volta in palio c’è la conquista del titolo.Si respira un’ aria magica. Charisteas contro Ronaldo. Scolari contro Rehhagel.

Tra le file portoghesi , è forte la voglia di riscatto e il desiderio di raggiungere l’ ambito trofeo tra le mura amiche.  Dall’ altra parte la Grecia nelle vesti del “piccolo sognatore” che  spera di coronare un sogno, forse anche più grande di lei. Partita equilibrata con le due squadre che si studiano per l’intera frazione del primo tempo , senza mai azzardare o come si dice in gergo fare il passo più grande della gamba.

La seconda frazione , seppur difficile da credere, vede gli ellenici più brillanti .

57’Minuto calcio d’angolo battuto da Basinas, ancora una volta il goleador ellenico Charisteas svetta su tutti e deposita il pallone alle spalle dell ‘ incolpevole Ricardo. L’incubo ellenico sembra materializzarsi di nuovo per i lusitani che insistentemente cercano il pareggio , senza però riuscire a conseguirlo. La Grecia è campione!La storia  probabilmente a volte è già scritta. Quella notte sul cielo di Lisbona c’ era scritto “Hellas”. Allora forse l’olimpo non era poi così irraggiungibile.

Andrea Capolli.

In “vacanza” sul tetto d’ Europa: il trionfo danese agli Europei del 1992.

Volendo fare della retorica, la si potrebbe definire una moderna fiaba di Hans Christian Andersen in chiave calcistica. Così appare chiara e indimenticabile l’ immagine del trionfo danese nell’ Europeo del 1992.

La Svezia è la nazione ospitante, e la formula di quest’ europeo prevede per l’ ultima volta la fase finale a 8 squadre. Tra queste vi è anche la Jugoslavia, classificatasi prima nel girone proprio davanti ai danesi. Purtroppo però la fortuna non giocò dalla parte di questa; infatti la guerra scoppiata nei balcani, aveva messo l’ intera nazione in ginocchio,e adesso la possibilità di poter disputare il campionato europeo era  passata dall’esser piena certezza  ad un semplice sogno, che giorno dopo giorno sembrava pian piano svanire. A pochi giorni dall’ inizio della manifestazione , viene incredibilmente ufficializzato che la Jugoslavia , totalmente dilaniata dalla guerra, non parteciperà di fatto all’ europeo. Chi altro avrebbe preso il suo posto allora? Manca una settimana al fischio d’inizio e si è costretti quindi a procedere al ripescaggio di una squadra. La scelta ricade incredibilmente su una Danimarca  già “vacanziera” costretta ad iniziare quindi la preparazione con  alcune settimane di ritardo rispetto alle altre compagini. Chi  al mare, chi aveva deciso di trascorrere una sana vacanza in montagna e chi invece , come il c.t Richard Møller-Nielsen adesso doveva solo preoccuparsi di rimettere insieme al più presto tutti i pezzi del “puzzle”. Alzando la cornetta richiama quindi a corte i propri giocatori. Si chiudono le valige, si aprono i borsoni e si rispolverano le scarpette. Nessuno mai avrebbe creduto sull’impresa degli scandinavi e chissà, forse prima del fischio d’inizio di quella finale, neppure loro stessi.

L’esordio a Malmö contro l’inghilterra si conclude a reti inviolate, con i danesi che dimostrano di saper tener testa ad una delle favorite candidate alla vittoria del titolo. Il secondo incontro si disputa a Stoccolma , proprio contro i padroni di casa. L’ incontro terminato 1-0 per gli Svedesi , in rete con Brolin, non sembra preoccupare gli animi danesi ,  ancora convinti di poter riuscire nel passaggio del turno. Così tutto si decide nella terza ed ultima partita del girone, contro un’altra grande d’ Europa: la Francia. I danesi passano in vantaggio con Larsen ma vengono riagguantati dal pareggio di Papin. Corre il 78′ quando Elstrup da poco subentrato in campo, mette a segno il gol decisivo portando incredibilmente la Danimarca in semifinale. Non troppo fortunati i mancati vacanzieri danesi, si vedono sbarrare il loro cammino verso quel sogno chiamato “finale” da un ‘ avversario scomodo: l’Olanda. La Danimarca non si lascia scoraggiare e prova a giocare un brutto scherzetto agli orange portandosi addirittura in vantaggio grazie al solito Larsen. Puntualmente Bergkamp ristabilisce la situazione di parità , ma Larsen e compagni non ci stanno e ancora una volta quest’ultimo riporta avanti i suoi. Danesi avanti 2-1! Quando mancano esattamente 4′ al triplice fischio, che avrebbe garantito alla nazionale di Nielsen l’ accesso alla finale, Rijkaard sigla il pareggio ricordando ai cugini scandinavi chi sono i campioni in carica. Si giunge così ai tempi supplementari, dove gli attacchi dei tulipani sembrano infrangersi svariate volte su un muro alto 1,93 di nome Peter Schmeichel. Il portiere già in forza ai red devils, sale in cattedra con alcune parate decisive, sventando cosi le minacce arancioni. Giunti ai calci di rigore l’ estremo difensore danese si esalta, volando leggiadro a deviare la conclusione di Marco van Basten facendo sentire il cigno di Utrecht , almeno per quel giorno, un brutto anatraccolo. La Danimarca non fallisce un colpo: Larsen , Povlsen, Elstrup, Vilfort, Christofte. Cinque su cinque. E’ tempo di finale. E’ tempo di aprire il cassetto dei sogni.

Il 26 giugno si gioca a Göteborg la finale contro la Germania. Come recitano le parole di un noto film diretto da Frank Darabont” …E se sei arrivato fin qui, forse hai voglia di andare un po’ più lontano…” cosi la Danimarca viaggiando sulle ali dell’ entusiasmo, sembrò decisa a compiere l’ultimo grande passo verso l’ olimpo, il passo che la portò a scrivere un’ incredibile pagina di storia nell’ almanacco di questo sport. Prima Jensen e poi Vilfort sancirono il 2-0 finale. La Danimarca era ufficialmente campione d’ europa, priva tra l’altro di uno dei suoi giocatori più rappresentativi: quel Micky Laudrup  rimasto a casa a perdere l’ occasione della vita.

La storia danese di quell’ europeo resta in sintesi una storia magica. Un po’ come le fiabe del resto… allora sì, forse c’ è davvero qualcosa di fiabesco anche in questa storia .

Andrea Capolli  

 

Dal calcio totale al tiki-taka: il nuovo volto del calcio moderno.

Intorno alla fine degli anni’60 alcuni dei più noti club olandesi ( Ajax, Feyenoord), fino ad allora di secondo piano , iniziarono a dominare ed imporsi sul palcoscenico calcistico europeo portando così alla ribalta quello che era un modo di giocare per l’ epoca rivoluzionario; un nuovo sistema di gioco veloce e dinamico basato più che mai sulla rinuncia ai ruoli fissi, in favore di un rapido movimento continuo dei singoli giocatori. I difensori si spingono all’ attacco, gli attaccanti ripiegano anche in difesa. “Siamo attaccanti che difendono, siamo difensori che attaccano“, così difatti recitano le parole di un celebre motto divenuto più che mai l’ emblema del calcio olandese dei primi anni ’70.

Germania. Mondiali di calcio 1974. Una squadra vestita d’ arancione incanta il mondo attraverso questo suo stile di gioco rivoluzionario e mai visto prima. E’ l’Olanda del calcio totale, Il totaalvoetbal che ha scritto la storia dei tulipani e li ha visti salire in cattedra come i nuovi inventori di una tattica di gioco che rompeva con i tradizionali schemi, fin troppo vincolanti e lasciava pian piano trasparire la nascita di un calcio ” nuovo”, che di lì a poco si apprestava a cambiar il volto dell’ intero panorama calcistico mondiale.

Rinus Michels , all’ epoca C.t dei tulipani nel mondiale tedesco , può esser considerato uno dei principali fautori di questo vero e proprio “sconquasso tattico”. Contando sulla disponibilità di ottimi giocatori, tra i quali spiccano i nomi di Neeskens, Krol e soprattutto il talentuoso Cruijff, la tattica di Michels prevedeva di allargare il campo in fase offensiva e al contrario rimpicciolirlo in fase difensiva in modo da rendere più difficile la penetrazione degli avversari nella propria metà campo. La creazione degli spazi è infatti una delle componenti fondamentali e necessarie per applicare la tattica del calcio totale. Tuttavia solo la capacità di sfruttare al massimo ogni spazio del rettangolo da parte dei singoli giocatori, rende possibile la buona riuscita di questa nuova tattica.

Al di là di tutto il calcio totale è stato anche il primo stile di gioco ad applicare sistematicamente il pressing e la tattica del fuorigioco. Tramite il pressing, la squadra di Michels fu la prima a promuovere scambi di posizione tra i giocatori di linee diverse. L’obbiettivo primo era quello di scardinare le difese avversarie attraverso una sorta di attacco di massa , che vedeva impegnati per la prima volta anche gli stessi difensori nell’ accorciar gli spazi cercando di fornire alla squadra ulteriori opzioni d’ attacco. Quello che si attuava in sintesi, era un pressing asfissiante a tutto campo che la difesa seguiva in maniera regolare, portando automaticamente la linea difensiva ad attuare la famosa “trappola del fuorigioco”. Il pressing a tutto campo infatti ha anche l’ effetto di mantenere la squadra corta favorendo sia gli inserimenti offensivi che i ripiegamenti difensivi. Così facendo anche l’estremo difensore (il portiere) assumeva un ruolo importante, operando quasi come un libero e mantenendosi quindi pieno controller  dell’ area di rigore sia con le mani che con i piedi.

Tale meccanismo si rivelò una novità assoluta a livello mondiale e portò naturalmente ad un ritmo di gioco più elevato. Non poche di fatto furono le avversarie di quell’ olanda, che nel mondiale del 1974 totalmente spiazzate da questa nuova invenzione furono costrette ad arrendersi alla superiorità della nazionale di Michels , ben presto soprannominata l’Arancia meccanica.

In quel mondiale gli orange si sbarazzarono agilmente di Uruguay, Svezia e Bulgaria nel primo girone. A farne le spese sarà poi l’ Argentina totalmente asfaltata da un 4-0 finale che non lascerà spazio a commenti, se non quello che testimonia il netto divario tra le due contendenti. Neppure Germania Est ai quarti e Brasile in semifinale, sembrarono impaurire la macchina da gol arancione che di fatto proseguì il suo cammino dritta alla finale del 7 luglio contro i padroni di casa della Germania Ovest. Prima di quella finale , gli orange avevano messo a segno ben 14 gol in 6 partite ed 1 solo subito. Con questo ruolino di marcia si presentavano perciò come gli assoluti favoriti davanti a qualsiasi pronostico. L’ inizio della partita sembra annunciare un monologo arancione, contraddistinto da un intenso possesso palla, volto a far stancare ed innervosire l’ avversario. Dopo neppure 1’minuto di gioco , i tulipani si portano in vantaggio grazie ad un rigore ben finalizzato da Neeskens. I tedeschi si trovano incredibilmente sotto e devono ancora toccare il pallone. La Germania però non demorde e grazie al suo stile di gioco ordinato trova il pareggio al 26′ con un rigore trasformato da Breitner. Forti del pareggio Muller e compagni si spingono all’ attacco e al 44′ proprio l’ attaccante in forza al Bayern di Monaco trova uno spiraglio nell’ area olandese e manda la sfera nel sacco. E’ 2-1! Gli olandesi, colpiti nel segno, appaiono stanchi e non riescono più ad imporre il loro stile di gioco innovativo. La rivoluzionaria olanda viene sconfitta proprio nella partita più importante del torneo. Nonostante la sconfitta, ciò basterà, per portare quella nazionale a scrivere un pezzo di storia del calcio mondiale. Il suo stile di gioco infatti sarà presto ricalcato dai tecnici di tutto il mondo e con la sua velocità getterà le basi del calcio contemporaneo.

 

La storia è fatta per esser cambiata. Quella di uno dei più popolari ed eccezionali sport del mondo no! Non quella del calcio! che piena di legami, affonda proprio nel passato le sue radici fondamentali proprio come testimoniano le parole di un vecchio proverbio” Il calcio del futuro è da ricercare nel passato“.Se si parlava di totaalvoetbal nei primi anni 70 , oggi  nel 2014 si continua a parlare di una filosofia che molto assomiglia a quella coniata dagli olandesi, ma che getta le sue basi tra le calde mura e i campi di gioco spagnoli. Tale filosofia risponde al nome di Tiki -taka ed è spesso considerata l’ evoluzione latina del calcio totale made in holland. Di fatto il totaalvoetbal attuato da Cruijff e compagni può esser considerato come il primo step, il seme che oggi ha fatto fiorire la nascita di questo nuovo stile di gioco. Il Tiki -taka è come appena detto, principalmente associato al calcio spagnolo del nuovo millennio, in particolare al Barcellona di Josep Guardiola che come Michels, ne indossa i panni di vero fautore. Guardiola per primo ha rielaborato la filosofia del calcio totale e come ci rivela Sandro Modeo, l’ex c.t dei blaugrana sembra di fatto aver prelevato da ognuno dei suoi allenatori un segmento utile per la ricostruzione di una ” nuova” orchestra. Da Van Gaal la possibilità di contrarre – espandere lo spazio ed il tempo sfruttando ogni angolo di campo, fino ad usare il portiere come “sponda”.Da Cruijff l’ossessione per la tecnica e le tattiche offensive. Così dopo lunghi anni, il calcio totale lascia spazio al tiki taka, l’allievo Barcellona ha superato il maestro Ajax, la Spagna ha rimpiazzato l’Olanda al centro dell’ universo calcistico mondiale.

Questo sistema di gioco che ben si adatta alla natura “fine”del calcio spagnolo, è caratterizzato da una fitta ragnatela di passaggi rasoterra, volti ad imporre il proprio possesso palla costringendo pertanto l’ avversario ad inseguire la sfera fino a stancarsi.

 

“Ricevo la palla, passo, ho la palla, passo, ho la palla, passo” questo è in sintesi il concetto che meglio descrive lo sviluppo di questa tematica di gioco. Un possesso palla estenuante, una sorta di ping-pong condito talvolta da sprazzi di estro e fantasia.

Per precisare, in tale schema di gioco, il possesso è mantenuto principalmente per vie orizzontali. Ciò lascia facilmente intuire che le verticalizzazioni sono limitate soltanto ai momenti in cui capita di riuscir a trovare nitidi spazi tra le linee. Tuttavia, se da un lato la filosofia spagnola trae le sue origini dal calcio totale e per certi aspetti vi somiglia, dall’ altro mostra un’evidente differenza. Mentre il totaalvoetbal era basato su una completa mobilità e libertà dei giocatori,che mostravano una maggiore potenza fisica, il tiki -taka invece si adatta chiaramente alla non -fisicità dei players e del calcio spagnolo. Infatti viene spesso considerato l’ antitesi del calcio fisico ed è quindi associato a talento, agilità e creatività. Uno stile di gioco innovativo, che ha visto un’ ulteriore evoluzione nel mondo di questo sport. E’ grazie al tiki -taka infatti che si esprime una costante rinuncia alle prime punte e si rivaluta l’ idea del “falso nueve”, ovvero un centrocampista di ruolo dotato di buoni tempi di inserimento, elevato tasso tecnico e ottima visione di gioco. Segnato dai numerosi trionfi dei blaugrana e della nazionale spagnola , vincitrice negli ultimi 6 anni di un mondiale (2010) e ben due europei (2008-2012), il tiki-taka sembra confermarsi oggi la tattica da battere. Ma chissà che nuove sorprese non siano pronte a bussare alle porte dell’atteso mondiale brasiliano.

 Andrea  Capolli .