Djalminha , il brasiliano del futebol moleque.

Quando si fa riferimento ai talenti brasiliani e al loro modo estroso di esprimere ed intendere il calcio si percepisce spesso qualcosa di sovrannaturale, che  in qualche modo è in grado di sconvolgere i piani , gli schemi avversari con una magia tirata fuori da quel cilindro che solo pochi possiedono.

Dentro questa cerchia rientrano ovviamente i vari Ronaldo, Romario Ronaldinho , Rivaldo .

Poi c’è lui uno di quei talenti che avrebbe potuto fare e avere quasi tutto, ma che ha soltanto scalfito la superficie del successo e del riconoscimento delle sue innate qualità: Djalma Feitosa Dias meglio conosciuto come Djalminha. 

L’interprete di un calcio di pura fantasia,un istintivo del gioco capace di giocate incredibili , di cose a metà tra Norman Bates e Francis Bacon. Insieme ad Edmundo rimane probabilmente il talento più incompreso degli ultimi vent’anni.

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Djalma Feitosa Dias è rimasto sostanzialmente celebre ad una nicchia di pubblico per il periodo in cui ha indossato la maglia del Deportivo la Coruña, cinque anni nei quali ha avuto modo di agire all’interno di un contesto; il più ideale possibile per le sue caratteristiche, sia tecniche che attitudinali. Allo stesso tempo però la sua discontinuità ha fatto si che il suo ricordo in qualche modo sia stato alleggerito , forse per quel suo carattere anche fin troppo irascibile e presuntuoso che lo contraddistingueva.

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La stessa carriera di Djalminha è un inno all’irregolarità: dei suoi 16 anni di professionismo si ricordano soltanto sparute gemme tecniche, folli invenzioni, sghembe movenze circensi e una diffusa sensazione di estraneità verso il concetto apicale di collettivo, nonostante un clamoroso titolo di campione di Spagna col Depor.

Djalminha era così, genio e sregolatezza, viveva  tra estro e pura follia , la più classica delle rappresentazioni del calcio di strada. Dopo gli anni nella madre patria, dove si aveva la netta impressione di trovarsi davanti ad un talento purissimo : un sinistro rarefatto, incontenibile per le sue innumerevoli sfaccettature, un genietto di strada trasportato direttamente al massimo livello del professionismo senza aver perso alcun tratto genetico del suo stile di gioco durante il percorso .Accetta a 25 anni una chiamata inaspettata dal Giappone, a Shimizu. Che Indubbiamente la scelta sia stata legata al peso economico non è neanche in discussione, forse però dietro c’era anche ben altro , qualcosa che suona allo stesso tempo come una disperata fuga da se stesso.

La sua natura e il suo talento sono i  due opposti di un soggetto difficilmente inquadrabile. Djalminha è uno di quei portatori sani del futbol moleque  ( il calcio fanciullo) .Un modo di porsi sia in campo che nella vita che richiama alla mente la spensieratezza e la gioia infantile affiancate da quel giusto grado di istintività che sgorga e trae legittimazione direttamente dal calcio di strada , da quel tipo di calcio che in Brasile ogni bimbo fin da piccolo pratica inseguendo il sogno di una vita.

Dopo di lui soltanto Neymar è stato ed è  capace di creare invenzioni simili con la palla e di avvicinare un intero popolo a quella natura naif e ludica che sta alla base del calcio inteso come gioco. Ma Neymar è al tempo stesso un fuoriclasse affermato, un brand globale, un professionista esemplare, un’icona dell’establishment pallonaro: la raffigurazione in calzettoni dell’Ordem e Progreso. Tutte dinamiche che al contrario, Djalminha ha sperimentato su di sé.

Dopo il pallone d’oro brasiliano del ’96, vinto nonostante un campionato paulista con più ombre che luci per la squadra di Scolari, Djalminha arriva a La Coruña . È in Galizia, terra di confine e asprezze, che il genietto di San Paolo riesce per la prima volta a lasciare il segno a 27 anni. In un contesto che non vive di forti pressioni , il brasiliano riesce ad ambientarsi e a dare progressivamente sfogo alla sua personale visione del calcio: i suoi dribbling, i suoi tricks assurdi, le sue irriverenti, barocche lambretas appartengono al pubblico che paga il biglietto di ingresso al Riazor.

15 secondi che ci consegnano un master in swag tenuto da Djalminha sui campi della Liga.

Eppure Djalminha ha fatto appena in tempo a lasciare un ricordo nitido di sé, proprio grazie al fatto di essere un creativo puro in un’epoca di passaggio, quella tra la fine dei ’90 e l’inizio degli anni zero, mentre il calcio si espandeva vertiginosamente a fenomeno globale, mediatico.

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Un giocatore che, all’apice della carriera, era visto quasi come un supersub da utilizzare se il piano gara avesse trovato complicanze o se si fosse rivelato errato. Djalminha era l’elemento instabile, la materia altamente infiammabile che poteva incendiare il campo, sempre se in giornata o forse meglio dire se in pace con se stesso.

Esiste poi anche una componente di scherno, di manifesta superiorità da sbruffone da cortile nel suo gioco che lo accomuna ad altri freak assoluti come Denilson. L’estro e la sua inventiva in campo erano i capi di un filo conduttore che fin da sempre lo ha caratterizzato in tutta la sua sregolatezza. Uno per cui perdere completamente la testa: disperarsi per scelte incomprensibili o esaltarsi per giocate non riproponibili a certi livelli e, soprattutto, in certi contesti.

E’ contro i colossi del calcio , le grandi di Spagna che l’anima candida di Djalminha si materializza come una personalità irrefrenabile, dando libero sfogo al suo futbol moleque. 

La sua capacità di controllare la palla in spazi inesistenti,di saltar l’avversario in un fazzoletto,  di riscrivere le regole del controllo orientato con primo dribbling annesso e di materializzare laser-pass spesso illeggibili per i compagni lo hanno portato ad esser fin troppo amato dentro i confini del Riazor. C’è chi lo ha ribattezzato Genio, El Mago, O Dios.  Poco importava di quel suo carattere così irruento e fin troppo irascibile , davanti a giocate simili  si applaude e giù il cappello.

Chiudere un triangolo al limite dell’area, facendolo in rabona con annesso tunnel al centrale in uscita e mandando in porta il compagno: ✓.

Djalminha è un’opera barocca, ricca di zelo manierista, che si muove all’interno di un contesto controllato e fin troppo legato a schemi che ostacolano  quel suo modo a colori di intendere e interpretare il calcio.

In definitiva, si può decidere di rifiutare Djalminha, pensare che rimanga un freak o uno sbruffone da garbage time; oppure abbracciarlo nelle sue variegate sfaccettature e comprendere fino in fondo la sua natura di splendido incompiuto, di stravagante anomalia prestata al calcio.

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