L’Ultimo Grande Campione

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Sono volati così 14 anni. Come un ragazzino che sfoglia le pagine di un album Panini e di tanto in tanto contempla le figurine mancanti. Nessun italiano si dimentica di quella lunga cavalcata che ci condusse alla notte di Berlino. Una notte nella quale tutti ci siamo sentiti ancora un po’ più italiani. Chi sul divano di casa, chi in un pub o in una pizzeria o chi addirittura davanti ai maxi schermi sotto le stelle. Ci eravamo abituati a sentire quei nomi pronunciati dalle inconfondibili voci di Fabio Caressa e Beppe Bergomi. Berlino ha rappresentato l’ultimo grande atto della nazionale azzurra, l’ultimo capitolo nella storia dei mondiali  di una vera “corazzata” che, insieme a quella del 1982, ha scritto una delle più belle pagine del calcio tricolore.

The Gold Generation

Così. mentre eravamo impegnati a ricordare la magia di quella notte, il tempo scandiva il capolinea di ogni singolo atleta. Da Cannavaro a Zambrotta, da Grosso a Del Piero, la clessidra ormai già avviata lasciava chiaramente presagire il tramonto di un’era.

Potremmo definirla, come dicono gli inglesi, la “Gold Generation”, alludendo ad una ristretta cerchia di campioni che ha toccato la vetta proprio con la vittoria del mondiale 2006. Resteranno per sempre un bellissimo ricordo e forse magari un giorno avremo l’occasione di raccontarlo ai nostri figli, trasmettendo loro quel calore e quelle emozioni che ci hanno accompagnato durante la competizione.

Adesso c’è chi siede in panchina con un incarico da CT, chi ha intrapreso la carriera da opinionista, chi lavora come Ds e chi invece è riuscito a rinunciare al pallone solo pochi giorni fa, scoppiando in  lacrime davanti ai tifosi che, per l’ennesima volta, hanno assistito all’addio di un altro incredibile pezzo di storia calcistica.

Il saluto di  Daniele 

Si, è il caso di Daniele De Rossi , che aveva scelto il Boca Juniors appena un anno fa e con cui era sotto contratto fino al prossimo 30 giugno. Ha deciso di abbandonare il calcio giocato per dedicare più tempo alla famiglia:

“E’ una scelta personale e relativa solo alla mia famiglia, con la quale voglio passare più tempo possibile. Sono triste perché avrei voluto giocare altri dieci anni, ma ho 36 anni e questo è il momento di dire basta per concentrarmi su altro. Se penso che non giocherò più mi sento male, ma sono contento di aver giocato tante partite importanti e di tutto quello che è successo nella mia vita“.

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La decisione definitiva è arrivata durante le vacanze di Natale e a seguito di un lungo periodo di riflessione sul suo immediato futuro da giocatore, legato anche al cambio dei vertici della società gialloblu, con la partenza del DS Burdisso, grande amico e fautore del trasferimento. Una vita dedicata alla maglia della Roma con la quale ha raggiunto il secondo posto per presenze ufficiali, preceduto solo dal compagno e capitano Francesco Totti.  E’ un’altra pedina che se ne va. L’ennesima di quella storica nazionale.

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L’ultimo eroe

Sebbene la nazionale l’abbia lasciata in quel 13 novembre 2018 con tanto amaro in bocca per quello spareggio mondiale perso contro la Svezia, oggi Gigi Buffon resta l’ultimo “superstite” della notte di Berlino 2006. L’ultimo grande campione.

Tutto comincia nell’ottobre del ’97 a Mosca, quando Cesare Maldini, allora CT della nazionale, decide di farlo esordire al posto dell’infortunato Pagliuca.

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Ne diventa ben presto titolare sotto l’era Dino Zoff, che lo promuove nel corso della stagione 1998-1999. Comincia la scalata e il 14 novembre 2009 tocca quota 100 presenze in nazionale, quarto giocatore italiano preceduto solo da ZoffMaldini e CannavaroNel 2013 eguaglia e supera le 136 presenze di quest’ultimo diventando il calciatore con più presenze in nazionale. Nel 2014 prende parte al suo quinto mondiale, eguagliando il record di Lothar Matthaus, mentre nel settembre 2015 raggiunge quota 150 presenze in maglia azzurra. Una carriera sempre in crescendo, che ha toccato il suo apice con la vittoria del mondiale tedesco. Nonostante ciò, l’ultima immagine dell’inenarrabile avventura in maglia azzurra di Buffon, alla quale ha portato rispetto, talento, esperienza, onore, vittorie, non è tra i pali o in lacrime a fine partita, non è neppure nel bacio alla Coppa del Mondo 2006, ma schierato in mezzo ai suoi compagni, durante l’inno della Svezia, ad applaudire a testa bassa, tentando invano di coprire i fischi assordanti di San Siro.

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Dopo l’avventura al PSG è tornato alla sua Juve, alla società che lo ha visto arrivare  ragazzo, crescere, spogliarsi della sua adolescenza per diventare uomo. Ne ha fatta di strada Gigi ed eccolo qua ancora in piedi, con le chiavi di quella porta che per anni ha difeso con tenacia ed un briciolo di follia. Perché si sa, alla fine per fare il portiere bisogna essere un po’ pazzi. E quel ruolo lo ha onorato in tutto e per tutto fino all’ultima goccia di sudore. Sta continuando a farlo anche oggi, malgrado abbia lasciato la maglia da titolare ad un giovane polacco di nome Szczęsny. Mentre il mondo attende di sapere chi sarà l’erede di Gigi, è doveroso ringraziarlo come avrebbe fatto qualsiasi amante romantico del calcio:

“Grazie Gigi. Un immenso grazie. Perché in fondo , non hai mai smesso di ricordarci: chi eravamo, chi siamo stati o forse chi dovremmo essere.”

La Partita di Calcetto di Fine Anno.

Se c’è una tradizione che ci accompagna fin dalla nostra adolescenza, questa  è la partita di calcetto. Rituali che si ripetono ogni volta sempre con la stessa cadenza e sfide che si rinnovano con sempre maggiore spirito di rivincita o di supremazia.

Il calcetto è uno di quegli sport dove quando perdi sei convinto che se la rigiochi subito la vinci. Non c’è mai (o quasi mai) una vera ammissione di arrendevolezza. Nelle dinamiche che portano a giocare la partita il copione è sempre lo stesso: ci sono i due capitani che solitamente sono i due “occulti” antagonisti e che fanno le convocazioni. Apparentemente si tratta di partite tra amici ma in realtà è la classica situazione dove si diverte solo chi vince mentre chi perde è soggetto agli sfottò fino alla prossima occasione. E’ un gioco che non ha età e che coinvolge un po’ tutte le generazioni.

Io e Bruno Alecs ci siamo conosciuti poichè entrambi abbiamo la passione della scrittura e del calcio. Una serie di circostanze ci hanno fatto incontrare ed anche se nessuno dei due lo dice è convinto di saperne più dell’altro.
Ci sembrava perciò doveroso chiudere il 2019, emancipando ancora di più la nostra amicizia, organizzando la classica partita di calcetto di fine anno.
Nel fare le convocazioni ci siamo dati una regola semplice ad entrambi ovvero: chiamare quei calciatori (in attività o meno) in linea però con il nostro modo di interpretare il calcio.

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Una chiave nostalgica ,per me , Robert,  che riporta sul rettangolo e interpreta pienamente i valori di un calcio nostalgico. Un calcio totalmente opposto ai tempi odierni dove i giocatori indossano e si fanno portatori dei valori sani del futbol: attaccamento alla maglia , voglia di far divertire. Dove anche i fuori classe si chiamano ancora fantasisti e non brand. Un calcio libero e non vincolato dai troppi tatticismi che come oggi ne soffocano la magia .

Una sorta di B-side per Bruno, che ha sempre avuto a cuore le storie più difficili, di quelli che non sono delle stelle ma convivono con le stelle senza averne nè la classe nè la capacità innata di emularle se non per una sera e per puro caso. Magari succede proprio in questa partita.

I CONVOCATI:

In Porta
Bruno AlecsMirante – Gli affido tranquillamente la porta. I 3 metri di larghezza ed i 2 di altezza non gli possono fare paura è troppo esperto e concentrato.
La sua convocazione è un premio alla carriera di un onesto mestierante dei pali che in modo del tutto silente è riuscito oggi a far si che non solo mi accorgessi di lui ma addirittura mi accorgo di volergli bene.
Basterebbe ripetere in questa partita le buone prestazioni che sta facendo alla Roma per puntare seriamente ad avere un’ottima solidità difensiva. E’ il classico esempio di come l’umiltà ed il mantenere un basso profilo sono atteggiamenti che pagano. Sei dei nostri.

Robert BillyGianluca Pagliuca – quel bacio di Pasadena nella finale del mondiale 1994 resta uno dei gesti idillici del calcio difficili da dimenticare.
Un simbolo di quell’edizione, un gesto di devozione a chi in quell’istante ha evitato che il sogno sfumasse fin troppo presto. La sua convocazione è un omaggio alla sua carriera, un premio a chi è riuscito a farmi ricordare che anche tra i pali si può essere eterni romantici. A lui affido le chiavi della porta di questa squadra.

Un difensore puro per parte

Bruno AlecsJosè Luis Palomino a quasi 30 anni comincia a farsi notare. Quasi del tutto anonimo nelle passate esperienze europee di Metz e Ludogoretz, il difensore argentino sta contribuendo a scrivere la Storia dell’Atalanta e forse gli rimane qualcosa anche per sé.
Gioca sempre ad alta intensità, cerca l’anticipo, bravo nell’uno contro uno ed ha un piede educatissimo. Tutto ciò che serve per ambientarsi bene nel campetto piccolo e ribaltare l’azione da difensiva ad offensiva nella frenesia del calcio a 5!
Con i suoi interventi decisi ma non cattivi (chiedere ad Aguero e Gabriel Jesus) mi assicura anche una tenuta disciplinare tranquilla e perciò decido di puntare molto su di lui. Sottovalutato.

Robert Billy:Paolo Maldini – nelle pedine della difesa , non poteva mancare il Paolone nazionale. Personalità, grinta ed eleganza si fondono in uno dei difensori più incredibili della storia del calcio mondiale. Detiene tuttavia il record di presenze in nazionale,della quale per svariati anni ne ha assunto il ruolo di capitano. In lui è riposta la mia fiducia per la guida del reparto difensivo , incredibile colonna nostalgica del calcio italiano.

Spazio a polmoni e fantasia:

Bruno AlecsStig Tofting – ovvero una clamorosa aggiunta di stamina e di carattere per non trovarsi impreparati nel caso che si accenda qualche mischia. Forse il motivo del suo temperamento da duro in campo è riconducibile allo shock con cui convive da quando perse entrambe i genitori.
La corsa felice verso casa per comunicargli che il giorno dopo esordiva con l’Aarhus nella finale di coppa danese. La macabra scoperta dell’omicidio- suicidio. Il padre poco prima aveva ucciso la moglie prima di suicidarsi. Il giorno dopo gioca. Vincono la finale e lui è il migliore in campo. Stig trova proprio nel calcio la forza per andare avanti, di circoscrivere quella rabbia che sembra sempre accompagnarlo durante le tappe della sua carriera.
Tutto grinta e polmoni mi sembra l’uomo giusto per dare equilibrio alla mia squadra. E, dove non arriva la tecnica, sono sicuro che farà sentire il suo peso e la sua faccia da bullo farà il resto. Fascia da capitano per lui e non solo per l’età.

Robert BillyEdgar Davids – Soprannominato “il Pitbull” per il suo agonismo e l’aggressività mostrata in campo. Nasce in Suriname ( ex colonia olandese), poi si trasferirà con la famiglia a nord di Amsterdam. Come i vari Seedorf , Kluivert sceglierà di far parte della nazionale dei tulipani con la quale collezionerà ben 74 presenze tra il 1994 e il 2005. Negli anni alla Juventus un glaucoma lo costringerà ad un operazione agli occhi. Costretto ad indossare occhiali protettivi durante le gare che ne diverranno presto il suo simbolo distintivo rimarcando tuttavia il suo spirito da vero guerriero del centrocampo.
Bruno Alecs: E’ la notte del 9 dicembre 2018 e Gonzalo “El Pity” Martinez ha appena realizzato il gol che vale la Coppa Libertadores per il River Plate nella controversa finale contro il Boca giocata in campo neutro a Madrid per i noti fatti cronaca accaduti a Buenos Aires. A 25 anni è nel pieno della sua maturità fisica e calcistica e mentre i club europei cominciano a pensare di investire su di lui, fa invece una scelta controcorrente accettando i dollari e la poca gloria della MLS Americana per la Franchigia di Atlanta.
Abbina velocità, tecnica, visione di gioco e senso del gol. E’ la trasformazione in chiave moderna del classico enganche argentino che lega i reparti. Fa cose che pochi calciatori argentini della sua generazione riescono a fare. Si muove altresì benissimo nello stretto ed è dunque perfetto per caratteristiche e personalità per la mia squadra di calcetto.

Robert Billy: Francesco “Ciccio” Cozza –  giocatore amato/odiato dal pubblico. E’ una bandiera nostalgica della reggina, essendo stato il protagonista degli anni più belli, della storia della società calabrese. Un giocatore ,caratterialmente parlando, un po’controverso che ha amato i colori amaranto fin da sempre. Il Granillo lo ha visto esordire, partire e poi ritornare. Per far risorgere la sua Reggina naturalmente, quando le cose non andavano del tutto bene. Le due incredibili magie, la prima alla “Del Piero“siglata al Brescia e la seconda a Torino, nella giornata dello storico accesso tra i maghi del pallone italiano. Caro Ciccio Benvenuto in rosa!

Bruno AlecsGerman Denis detto “El Tanque” è l’uomo giusto che porta in dote una valanga di gol. Se è vero che nel gioco del calcetto si stravolgono le logiche del più forte rispetto al calcio a 11, i movimenti sgraziati e concreti di German mi danno garanzia di massimizzare la mole del gioco d’attacco.
Da lui mi aspetto che riesca a fare tutto quello che il classico campione del gioco a 11 non riesce a fare su un campo a 5. Compresi i tiri di punta dritto per dritto che a questo gioco sono un fondamentale micidiale. A 38 anni segna ancora grappoli di gol nella nostra serie C, dove è il terminale d’attacco di una Reggina che insieme a Barcellona e Liverpool rimangono sorprendentemente imbattute in Europa . Porta esperienza, fisico e soprattutto mi ha promesso una scorta di alfajores argentini al duce de leche. Top.

Robert Billy: Stefan Schwoch -Di origini tedesco- polacche da parte di padre , come di fatto testimonia il cognome. Bandiera del Vicenza , se sei un vero nostalgico non puoi dimenticarti di lui. Fiuto del gol e tempismo lo rendono un vero e proprio “falco da area di rigore”. Anche lui merita un posto nella lista dei convocati!

Bruno AlecsMario Balotelli ha tutto per sfondare nel calcio a 5. Ha carisma, sfrontatezza e tende a bullizzare i suoi avversari, proprio quello che ci vuole contro la corazzata di Robert Billy. A neanche 30 anni Super Mario ha già avuto diverse esperienze e svariate etichette.
E’ partito dall’Inter quando era considerato un Enfant Prodige del nostro calcio fino ad arrivare alla normalità della provincia italiana in quel di Brescia, passando anche dall’essere un eroe nazionale quando affondava la Germania ad Euro 2012 . Ma niente è normale per Mario Balotelli.
Una carriera passata a cercare se stesso e lampi di eleganza calcistica che ogni tanto ne hanno alimentato il mito. Non ha mai dato l’idea di lavorare sodo, anzi piuttosto l’idea che ci ha trasmesso è quella di aver lasciato inespresso gran parte del suo talento.
Lo convoco perché in serate come questa so che ci farà divertire sia dentro che fuori dal campo.

Robert Billy: Domenico “Mimmo”Morfeo – talento e classe cristallina lo rendono un giocatore estremamente imprevedibile, uno di quelli che vorresti sempre avere in squadra perché uno come Mimmo le partite le risolve da solo, anche se si tratta di una gara di calcio a 5. . Piedino fatato , sterzate improvvise e lampi di genio. Il classico trequartista che ai tempi odierni non si vede più. Uno di quei giocatori che imprescindibilmente non può concepire un calcio vincolato da schemi e ingabbiato da tatticismi. Con lui si gioca per divertirsi e far divertire, per il gusto estetico di interpretarlo attraverso la piena libertà di espressione . Passione , fantasia e poi ancora passione. Benvenuto in rosa Mimmo.

In realtà, anche se nessuno lo ammette, questa partita è una sorta di resa dei conti.
Il vincitore potrà vantarsi di aver un occhio ed un’ interpretazione clinica impeccabile nella lettura delle caratteristiche di coloro che solitamente ci affascinano come calciatori professionisti.

Per una volta questi atleti saranno con noi, anzi saranno la nostra ideologia calcistica applicata ad un campo di calcio a 5. La difficoltà è proprio contestualizzare un giocatore di calcio alle diverse soluzioni tecniche e tattiche ridotte degli schemi a 5. Tradotto in italiano vuol dire che non sempre chi è un campione in una disciplina lo è necessariamente in una diversa benché molto simile.

La Redazione.

6 aprile 1994, quando le gazzelle di Pontedera sconfissero l’Italia di Sacchi

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Nei libri di storia del calcio tutto è stato oscurato. Negli archivi online, invece, permane ancora qualche frammento di quella che, da molti, è stata definita come “l’imperdonabile giornata”. La giornata in cui le gazzelle di Pontedera improvvisamente sbranarono il leone, forse perché stanco o semplicemente troppo abbagliato da una presunzione tale da impedirgli di approfittare di un pasto all’apparenza scontato.

Gli eventi.

Era un mercoledì, quel 6 aprile. Il nuovo brano Serenata Rap di Lorenzo Cherubini, per tutti “Il Jova“, spopolava in radio. La Pasqua era passata da tre giorni e un partito chiamato Forza Italia, guidato dall’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, aveva appena vinto le elezioni politiche. Sembrava quasi un’invocazione calcistica, proprio nell’anno del mondiale.

Mondiali che, per la prima volta, sono sbarcati negli Stati Uniti. Merito di una personalità unica come quella di Henry Kissinger, segretario di stato degli States e autore di una brillante e innovativa politica estera. Grande appassionato del calcio europeo, Kissinger decise di dare una svolta al soccer negli Usa. Portare il grande calcio all’interno dei confini statunitensi avrebbe rappresentato un’occasione irripetibile per pubblicizzare questo sport anche nel suo paese, consacrandone la popolarità a livello mondiale.

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“Leoni e gazzelle”.

Torniamo in Italia, a quel fatidico mercoledì. Spostiamoci a Firenze e più precisamente a Coverciano, dove gli azzurri di Arrigo Sacchi sono in ritiro da qualche giorno in preparazione del Mondiale che sarebbe iniziato a Giugno. Nessun tifoso a bordo campo, gli unici occhi presenti erano quelli dello staff tecnico della Nazionale e dei giocatori di una matricola che aveva appena iniziato a farsi conoscere in serie C2: il Pontedera del CT D’Arrigo, ospite al centro tecnico federale per un’amichevole. Quasi un’omonimia ribaltata. Forse già un presagio. Quel giorno infatti una squadra di C2 ribaltò ogni logica. Leoni e gazzelle su un campo di calcio, protagonisti di uno scontro impossibile ma tutto da raccontare, perché quelle prede non si limitarono a correre davanti ai predatori. I ragazzi di D’Arrigo misero in atto un’ora e mezzo di pressing sfrenato, privando gli uomini di Sacchi di fiato ed idee. Due graffi e alla fine… lo scalpo. Italia – Pontedera 1-2.

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Facevamo rombi e raddoppi. D’Arrigo mi chiese di giocare come la Norvegia, avversario che avrebbero trovato al mondiale: pressing asfissiante e raddoppi continui. Non era un problema, eravamo abituati a giocare così…”

I leoni sapete bene chi erano, le gazzelle no. Una squadra che, a cavallo tra il professionismo e il mondo dei dilettanti, era riuscita a guadagnarsi l’affetto dei tifosi, vittoria dopo vittoria. Aveva iniziato a farsi conoscere, come racconta lo stesso D’Arrigo:

“Ci allenavamo bene e siamo arrivati a quell’amichevole da imbattuti. Nessuno ci aveva ancora sconfitto nel girone…”

Di fatto il Pontedera si presentò all’Italia con un ruolino di marcia a dir poco sbalorditivo: 46 gol fatti e solo 11 subiti in campionato, due pareggi consecutivi nelle ultime due gare e un primo posto nel girone B che confermava quanto di buono espresso.

La nazionale era per noi un test di lusso che ci avrebbe portati dritti alla trasferta di Montevarchi. Chiaramente non ci preparammo nello specifico, anche perché avrebbe fatto ridere scrivere alla lavagna come fermare Baggio…”

Nessuno mai avrebbe immaginato che l’impossibile stesse per accadere. L’arbitro Collina dirige la gara e i dirigenti granata sono più intenti a seguirne gli sviluppi che a prendere appunti. Del resto che senso avrebbe avuto scrivere di una gazzella che andava incontro al morso del Leone?

Aglietti-Rossi, il tandem vincente.

Poi, improvvisamente, cambiano le carte in tavola. Il Leone appare disorientato e la giovane gazzella ne approfitta per sferrare il colpo. Al diciannovesimo Alfredo Aglietti, prima punta del Pontedera, riceve palla spalle alla porta e inventa un assist per Matteo Rossi, capello lungo e maglia numero 7.

Schema perfetto, Maldini sorpreso dallo scatto e Marchegiani beffato da un pallonetto impeccabile. Rossi con una scarpa slegata neanche festeggia. Alza il pollice verso Aglietti e si fa il nodo. Il tabellino segna Pontedera 1, Italia 0.

Quel 6 aprile ’94 Francesco D’Arrigo vestiva un elegante cappotto beige, all’inglese. Il suo più illustre dirimpettaio, invece, sprofondava in un piumino sportivo oversized. Al 22′ il Pontedera si toglie incredibilmente il cappotto di dosso e lo porge all’Italia. Un brivido prima del gelo. Angolo dalla sinistra, testa di Rossi, respinta di Marchegiani e tap-in vincente di Aglietti: 2-0.

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Lo stesso Aglietti a distanza di anni ricorda il momento con entusiasmo e dietro un piccola risata commenta:

“Ricordo un misto di stupore e consapevolezza. Sacchi chiese di fare 40 minuti a tempo, almeno così sarebbe dovuto essere. Il primo finì col nostro doppio vantaggio. Poi nella ripresa entrò Massaro. Accorciò le distanze e colpì una traversa nei minuti finali. Ci provarono in tutti i modi a pareggiare. Non è un mistero che Sacchi abbia chiesto un recupero lungo. Cinque minuti, poi sei, poi sette… “.

Critiche e festeggiamenti.

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Incredibile, il Pontedera aveva vinto. Segnando due gol e mandando sistematicamente in offside gli azzurri di Sacchi, il re del fuorigioco. Lo staff della nazionale le provò tutte. Ancelotti e Carmignani si improvvisarono perfino guardalinee, sostituendo di fatto quelli ufficiali.

Il Presidente di quel Pontedera, Luciano Barachini, imprenditore che aveva fatto la sua fortuna fabbricando calzature, ricorda ancora a distanza di anni l’impresa con queste parole:

“All’intervallo la gente mi chiamava al cellulare. Quando dicevo che stavamo vincendo 2-0 riattaccavano o si mettevano a ridere. A fine partita accompagnai Sacchi nel nostro spogliatoio. Mi credi se ti dico che eravamo mortificati? Vedevo un uomo consapevole di cosa fosse appena successo. Noi ce ne rendemmo conto arrivati a Pontedera”.

La squadra venne accolta al ritorno in città da orde di tifosi festanti, in un clima quasi surreale. Esattamente come se gli amaranto fossero i nuovi campioni del mondo. Del resto il loro “mondiale” i granata lo vinsero con la promozione in C1 a fine stagione, perdendo due sole gare in tutto il campionato. Il successo fu celebrato con un’amichevole contro la Juventus, organizzata grazie all’amicizia di Luciano Barachini con Giovannino Agnelli, all’epoca numero uno della Piaggio.

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Le testate dei Giornali l’indomani, su tutti la Gazzetta dello Sport, arrivarono quasi a ridicolizzare gli azzurri e il loro CT. Sul capitolo mondiali nei giorni seguenti si aprirono dibattiti che suscitarono numerose polemiche.

” Ai mondiali il Pontedera ” …

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A distanza di ben 25 anni il 6 aprile resta ancora una data simbolica sia per il club pisano che per gli undici “eroi” scesi in campo, che in quel pomeriggio primaverile si divertirono a fare gli Azzurri…


Cambio di Gioco: Un blog tra sentimento e sport.

Quando il mondo dello sport incontra il valore degli affetti , si crea un legame indescrivibile. Cambio di gioco è un blog nato con il nobile scopo di raccontare quel sodalizio fra sentimento e sport. L’autore del blog sotto lo pseudonimo di “Bruno Alecs” ci racconta la genesi del suo progetto: devozione e dedizione allo sport che ha segnato la nostra infanzia.

Come nasce “Cambio di Gioco”?

Il motto di Cambio di gioco è ” chi vuole bene a qualcuno trova sempre il modo di fare qualcosa per lui”. Per questo vi dico che voglio bene allo sport e scrivo di sport , scusate il gioco di parole , per dar enfasi a questa mia forte passione. Soprattutto però , per vivere e sentire dentro di me quell’ emozione unica che provo ogniqualvolta metto nero su bianco i miei racconti.

Da quanti anni porti avanti questo progetto ?

Da circa due anni. Il blog nasce esattamente nell’autunno del 2017.

Domanda d’obbligo : squadra del cuore ?

La verità è che non ho una vera e propria squadra del cuore. Ho delle squadre che per svariati motivi mi emozionano più delle altre e cito Roma ( la rosa con più hype in assoluto ormai da anni) e da appassionato di calcio argentino il Boca Juniors. Sicuramente ho le idee più chiare sulle squadre che non sopporto ma quelle preferisco non menzionarle . Tuttavia sono reduce di un passato da ultras nella curva di una squadra che non ti svelerò mai, Ahahah!

Se dovessi far riferimento ad un periodo d’infanzia al quale ti senti particolarmente legato in ambito calcistico , la tua scelta dove cadrebbe e perché?

Bella questa domanda! Non avrei dubbi, la mia adolescenza in pieni anni 90. Decisamente il periodo più bello per innamorarsi del calcio e delle sue sfaccettature. Direi che “come un prima e dopo Cristo” esiste anche un prima e dopo Italia ’90.

La quinta e ultima domanda sorge spontanea, per cui se ti chiedessi di citarmi un edizione dei mondiali alla quale sei particolarmente legato , cosa risponderesti?

Germania 2006. Non solo perché abbiamo vinto ma perché ho avuto il piacere di vedere l’esordio e la semifinale. Ovviamente alzare al cielo la Coppa è stata la ciliegina sulla torta , che ha certificato il valore di una generazione di giocatori che calcisticamente è nata a fine anni’90 raggiungendo il suo apice appunto nel primo decennio del secolo successivo.

Si ringrazia di nuovo per la disponibilità e l’intervista.

Nel cuore d’Abruzzo: il miracolo di Castel di Sangro.

Introduzione.

Si può rovistare nel cassetto dei ricordi semplicemente limitandosi a sfogliare le pagine di un vecchio libro o si può decidere a distanza di 23 anni di risvegliare per quanto possibile le  emozioni e i trionfi di una delle storie calcistiche più incredibili di sempre.

Quando poi a compiere “il miracolo” è una di quelle matricole, totalmente sconosciute agli occhi dei più (prima di quella fatidica impresa) , allora ci si addentra all’interno di una storia quasi difficile da credere. E’ lo sport che torna alla sua essenza in cui passione e sudore sfidano soldi e potere.

Il miracolo poi l'oblio, quattro piccoli club di provincia entrati nella  storia in B

Esattamente come se qualche buon Dio del calcio abbia voluto lasciare un messaggio a quella landa desolata, a quello spicchio di Italia incastonato tra  Abruzzo , Molise e Lazio dove le difficoltà economiche di certo non mancavano considerata l’asprezza del territorio.

Circa 5500 anime lo abitavano nel 1996/97, oggi solo un migliaio in più.

Benvenuti nel paese dei miracoli.

Benvenuti a Castel di Sangro.

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    Castel di Sangro dall'alto nel 2015.

GLI INIZI.

Certamente superiore, per chi scrive, a quella del Leicester e paragonabile probabilmente solo a quella dei dilettanti del Calais, nella Coppa di Francia 1999-2000.

Lo straordinario prodigio storico del Castel di Sangro calcio ha inciso senza dubbio una delle più belle pagine di sport nel mondo del pallone.

 Con le sue ali cosi piccole e il suo corpo così tozzo,

il calabrone non potrebbe volare.

Per farlo deve sfidare continuamente le leggi della fisica.

Per farlo è costretto a battere le ali 10 volte più velocemente degli altri insetti.”

E’ da questa massima scritta nello spogliatoio dall’allora C.T Osvaldo Jaconi che ha inizio la strabiliante avventura del Castel di Sangro, una piccola realtà del calcio abruzzese che sogna di sbarcare un bel  giorno nei palcoscenici che contano.

LA STORIA.

Ma per capire davvero la grandezza dell’impresa bisogna fare un salto indietro negli anni.

Tutto ebbe inizio nell’ 88-89, anno in cui il Castel di Sangro  si affaccia per la prima volta nella sua storia, al mondo professionistico.  La squadra rispecchia fedelmente la mentalità abruzzese ed affronta ogni gara come una battaglia quotidiana per la sopravvivenza, fieri del proprio percorso ma ben consapevoli della propria realtà. Poi qualcosa cambia, o per meglio dire qualcuno.
Un’imprenditore pugliese di nome Gabriele Gravina mosso fin da sempre da un eterno amore per il mondo dello sport e uno spiccato senso competitivo votato al progresso, ne diventa ufficialmente presidente  nell’ anno 1992. L’ingresso della sua figura ai piani alti della società porta entusiasmo al “ Teofilo Patini” (storico impianto di casa della formazione sangrina) e  si comincia a sognare in grande .

Ad un presidente carismatico aggiungete quattro o cinque giocatori di buon livello,  un mister esperto in promozioni ed i giochi sono fatti.

Arrivano ali di un certo calibro come Bonomi e Tonino Martino e in più faranno parte dello spogliatoio anche i vari Bombardini, Colonnello e Tricarico.

Siamo nel 1993, e qui di fatto ci ricolleghiamo alla figura già introdotta precedentemente, di Osvaldo Jaconi , nonché il timoniere e storica personalità della panchina giallo-rossa.

Il primo passo viene compiuto il 25 giugno 1995. Finalissima play-off contro il Fano sul campo neutro di Ascoli. La gara è da cardiopalma, con gli abruzzesi che vanno incredibilmente sotto. Avanti 3-1 nella seconda frazione di gioco  vengono poi ripresi dai marchigiani. Sarà la lotteria dei rigori a premiare la squadra di Jaconi sancendo la prima storica promozione in C1.

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Formazione Castel di Sangro promossa in serie C1.

LA PROMOZIONE IN B .

L’annata 95/96 si prospetta una stagione difficile , analizzando le solide avversarie della matricola Castel di Sangro. Come un falco che volteggia lento nell’aria e attende il momento giusto per attaccare, la formazione di Jaconi dimostra di saper “colpire” e  farsi rispettare anche  dalle grandi. Ne è la testimonianza la vittoria per 1-0 sul quotato Lecce alla quinta giornata. Dunque via la maschera.

Al Teofilo Patini non si è mai smesso di sognare.

Qui mi vengono in mente le romantiche parole nella lettera scritta da Andy all’amico Red , nel celebre film diretto da Frank Darabont “ Le ali della libertà “:

“…E se sei arrivato fin qui, forse hai voglia di andare un po’ più lontano…”

Cosi , a Castel di Sangro  si   vola sulle ali di un entusiasmo che da un po’ di tempo a questa parte avvolge i  tifosi e  l’intera “città” , anche se forse città non è proprio il termine giusto per definirla.

Il verdetto di fine stagione sancisce il Lecce vittorioso, subito alle sue spalle la formazione abruzzese conquista meritatamente i play off.

Con il Gualdo in semifinale, a parità di gol, fanno valere il miglior piazzamento e in finale allo Zaccheria di Foggia bloccano l’Ascoli.

In 120’ minuti lo 0-0 non si schioda, ancora una volta  tutto si decide  ai rigori.

Protagonista è il tecnico  Jaconi che al di là dell’esperienza fin ora dimostrata, ha letteralmente preso alla lettera la citazione di un lungimirante poeta e scrittore di origini cilene , naturalizzato francese, tale Luis Sepúlveda :

Que sólo vuela el que se atreve a hacerlo

 Tradotto significa “ Vola solo chi osa farlo” e come nelle più incredibili storie , spesso  è un pizzico di follia , una giusta dose di incoscienza a cambiare le sorti di un qualcosa che apparentemente poteva sembrare già scritto.

IL C.T  per mischiare le carte manda in campo a un minuto dalla fine il secondo portiere Spinosa al posto di De Iuliis che lascia il rettangolo di gioco  senza risparmiarsi non poche polemiche. Spinosa non ha alcun minutaggio alle sue spalle prima di quel fatidico ingresso che di li a poco lo renderà l’eroe di giornata. Al quattordicesimo rigore, neutralizza il tiro del centrocampista Milana, e incredibilmente sembra che il cuore della città per qualche frazione di secondo, smetta di battere. Davanti agli occhi increduli e visibilmente emozionati della tifoseria abruzzese si è appena compiuto il miracolo: CASTELLO in B.

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La formazione sangrina vittoriosa del campionato di C1

L’OMBELICO DEL MONDO.

Inutile dirvi che l’impresa scritta da Jaconi e i suoi fu qualcosa di calcisticamente inarrivabile. E’ bello pensare che  quella landa desolata avesse ritrovato il sorriso dopo aver raggiunto l’apice del trionfo.

L’inaspettato successo ebbe naturalmente ripercussioni molto forti sulle televisioni, giornali e quel piccolo paesino iniziò ad esser piano piano conosciuto fuori dai confini nazionali.

Un americano di origini New-Yorkesi , tale Joseph Ralph McGinniss , meglio conosciuto come Joe,  era giunto in Italia durante quel periodo deciso curiosamente ad intervistare il con-nazionale Alexi Lalas, nota voce del gruppo musicale emergente  The Gypsies e carismatico difensore in forza al Padova.

Lo scrittore statunitense , entrato a conoscenza e altrettanto incuriosito dalla “ matricola “ che aveva sconfitto i giganti , decise di soffermarsi sull’analisi di quell’apoteosi. Non era un impresa facile, questo implicava vivere in simbiosi con la squadra , seguirla da vicino , ma era piuttosto convinto che in qualche modo ne sarebbe valsa la pena.  Ne conseguì nei due anni seguenti la pubblicazione di un  libro “ The miracle of Castel di Sangro”, a testimonianza e frutto di un duro lavoro che traccia nei dettagli il percorso che portò a quella fatidica e storica promozione.

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Copertina del libro di Joe Mcginnis "The miracle of Castel di Sangro".

UN PERIODO “STRANO”.

Mentre si continuava a parlare di questa squadra che era andata contro ogni pronostico, scavalcando le grandi e conquistando l’affetto di ogni vero amante del calcio,si arriva agli inizi del campionato di Serie B.

Molti i confermati della stagione precedente , per citare alcuni nomi :  Prete, Altamura, Bonomi, Cei, Galli. Si aggiungono a questi alcune pedine di qualità come l’esperto centrocampista Di Fabio, prelevato dalla Fermana e dalla vicina Giulianova è arrivato Danilo Di Vincenzo, una mezzapunta che nel gioco molto all’italiana di Jaconi serve a dare un po’ di fantasia.

Il Castello non parte male anche se montarsi la testa non è difficile; ora ci sono le televisioni, i collegamenti in studio ed i giocatori immortalati nelle figurine panini. Si avverte che si sta facendo qualcosa di straordinario ed il crollo è dietro l’angolo.
Iniziano a susseguirsi una serie di “strani eventi” che lasciano del tutto presagire un futuro “buio” e pieno di insidie . Il centravanti Giacomo Galli di fatto rischia di perdere la vita a causa di una brutta infezione nel sangue. Il difensore Pierluigi Prete si trova al centro di un indagine per traffico illecito di cocaina dal quale poi ne risulterà innocente. Ma l’episodio che getta letteralmente nello sconforto la squadra e l’intera cittadina è datato 10 Dicembre 1996.

Sulla strada di ritorno in vista  della ripresa degli allenamenti , dopo i giorni “premio” ricevuti in seguito alla trasferta di Venezia, Danilo di Vincenzo alla guida di una Volkswagen Golf  insieme al compagno Filippo Biondi ( appena diciannovenne e una carriera ancora da scrivere) si schiantano in autostrada nei pressi di Orvieto e per i due non ci sarà niente da fare.

Una tragedia che sconvolge Castel di Sangro e il calcio italiano. I funerali che ebbero luogo in paese videro una partecipazione popolare fuori dal normale.

La prima partita dopo la tragedia è un Castel di Sangro-Lucchese, che è anche il primo match a giocarsi nel nuovo stadio, ampliato appositamente per poter ospitare partite di B.

Si gioca naturalmente in un clima del tutto surreale;

All’inevitabile 0-0 fanno da cornice le due magliette di Biondi e Di Vincenzo, al resto della stagione farà da cornice la voglia di una squadra di dedicare la salvezza a qualcuno che non c’è più.

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Danilo di Vincenzo a dx con mister Jaconi e Filippo Biondi sulla sx.

LA SALVEZZA E  IL LENTO DECLINO DEGLI ANNI SUCCESSIVI.  

Malgrado le pessime vicissitudini accadute , la squadra del tecnico Jaconi riusci a rialzarsi ottenendo a fine stagione una storica permanenza in B, dopo aver battuto nel derby i rivali del Pescara.

L’anno dopo è un ultimo posto annunciato dopo aver smantellato la squadra dei suoi pezzi migliori ; il terzetto Fusco – Martino – Bonomi passa all’ Empoli appena riportato in Serie A da Spalletti, ed anche la colonna portante  Cei viene incredibilmente ceduta.

La squadra non ritrova più la magia delle stagioni precedenti e la bacchetta magica del tecnico Jaconi non è più in grado di riscontrare la formula giusta. Di fatto le strade del mister dei miracoli e della sua splendida macchina da calcio si separano a dieci giornate dal termine.

Neanche l’arrivo in panchina del campione  del mondo ’82 Franco Selvaggi basterà a mantenere la categoria. Di conseguenza  quello sarà  nient’altro che l’imbocco di una strada che li condurrà presto ad un serie di avviate retrocessioni ed un lento declino.

Oggi le luci del Patini sono spente. La formazione attuale milita nel campionato di promozione molisana sotto il nome di Castel di Sangro Cep 1953 .

Tutto quello che resta è la nostalgia del ricordo di una squadra che ha regalato emozioni incredibili facendo gridare al miracolo calcistico un piccolo paese sperduto tra le lande abruzzesi.

Gli Eroi di quella favola sono sparpagliati per l’Italia; Roberto De luliis, il portiere, si è stabilito a Pesaro dove gestisce un locale pubblico, cosi come  Paolo Esposto, invece, svolge la professione di assicuratore;

Edmondo De Amicis ha un’attività commerciale e si diletta a guidare l’Alba in Eccellenza , e cosi tanti altri.

Eroi silenziosi, tornati alla normalità.

Paulo César Wanchope: il cestista che divenne goleador.

Dietro alle grandi favole, c’è sempre qualcosa pronto a stupirci. Così, esattamente allo stesso modo, dietro ai grandi racconti di sport esiste una componente fiabesca che cela la magia di storie incredibili.

Spiccate doti atletiche, tra le più insolite agilità ed una gran elevazione lo rendevano perfetto per lo sport del “baloncesto”; peccato o forse per sua fortuna che il cuore e di conseguenza la passione spingessero per altro.

“Perché è qualcosa che ho nel mio sangue, mio ​​padre, mio ​​zio e i miei due fratelli hanno giocato a fútbol, ​​quindi ce l’abbiamo nel nostro sistema ed è per questo che ho deciso di giocare il fútbol, ​​voglio dire calcio”.

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Paulo César Wanchope nasce a Fátima, Costa Rica e prima di entrare nel mondo del Fútbol intraprende una carriera nel college basket giocando per la squadra locale del Calexico nel Sud della California, dove si era trasferito a vivere dopo aver vinto una borsa di studio all’età di 17 anni. Tutte le sue forze e sacrifici erano riposti nel mondo del basket, sperando un giorno di riuscire ad emergere nei palcoscenici dell’NBA.

Gli esordi

Rientrò in patria per una breve vacanza, e non riusciva a star lontano dal calcio, passando le sue giornate giocando nei campetti con gli amici. Il manager dell’Herediano, una delle squadri locali, lo notò e decise di dargli un’opportunità portandolo tra i grandi nella Primera Divisiòn Costa Ricana.

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La svolta

Da qui cominciò ufficialmente la sua carriera nel mondo del Fútbol. Quel ragazzo appena ventenne non impiegò molto a farsi notare, cosi che anche l’Europa decise presto di mettergli gli occhi addosso. Fu un certo Jim Smith a scommettere su di lui, lanciandolo in Premier League nel calcio dei grandi. Approdò al Derby County per una cifra stimata di circa 390. 000 dollari.

Nella gara di esordio, la fiducia datagli venne subito ripagata andando a segno nel tempio del calcio inglese: un Old Trafford gremito lo applaudì dopo aver segnato ad un certo Peter Schmeichel e aver regalato ai suoi un’inaspettata vittoria.

“Peter Schmeichel era in porta e più tardi nella mia carriera ho giocato con lui al Manchester City.”

Ha uno stile di gioco particolarmente affine a quelle che erano le sue caratteristiche da cestista nel mondo del basket. Si aiuta spesso con le braccia per liberarsi dell’avversario; la stessa corporatura molto esile lo rende sfuggente e imprevedibile nei movimenti.

Un bel giorno di marzo del 1999 regala al Derby County una storica vittoria contro i Reds del CT Roy Evans, mettendo a segno un’incredibile doppietta. Il goal vittoria è un inno di esaltazione alle sue doti atletico-balistiche. Punizione dalla tre quarti calciata dal centrale Spencer, aggancio al volo e tiro che si stampa diritto sotto il sette.

Le parentesi

Il Derby County rappresentò in sintesi il suo trampolino di lancio. Il West Ham nell’agosto dello stesso anno si assicurò le prestazioni del centravanti, tuttavia però non riusci ad ambientarsi molto e nella stagione seguente passò al Manchester City, vivendo forse il periodo più prospero della sua carriera in Inghilterra. Nel 2003 ebbe una breve parentesi al Malaga che lo vide entrare in conflitto prima con i tifosi e poi con le scelte dell’allora CT Tapia, e di conseguenza costretto ad un nuovo trasferimento altrove.

Si trasferì prima in Qatar, dove vi arrivò con grandi aspettative e ripartì non molto tardi con un immensa delusione sulle spalle a causa di alcune divergenze con il CT Bruno Metsu.

La fine della sua carriera lo vede prima in Argentina con il Rosario Central dove militerà un paio di stagioni. Successivamente nel 2006 deciderà di sperimentare il calcio del continente asiatico trasferendosi in Giappone nella J. League prima di appendere definitivamente le sue scarpette al chiodo.

Nazionale

Con la nazionale disputò ben due edizioni mondiali, quella del 2002 in Korea e Giappone e quel del 2006 in Germania regalando momenti indimenticabili al popolo del Costa Rica. Divenne il miglior marcatore nella storia dei Ticos siglando una doppietta nella gara inaugurale dei Mondiali 2006, persa per 4-2 proprio contro la nazionale di casa.

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Carriera da allenatore

Terminata la carriera da giocatore, intraprese una carriera da allenatore ripartendo proprio con il club che lo aveva lanciato in Europa: l’Herediano. Risultati mediocri lo costrinsero però ben presto a dimettersi.

Nel settembre del 2011 entrò nel giro della nazionale affiancando il nuovo CT Jorge Pinto. Circa 3 anni dopo, con le dimissioni di quest’ultimo, ne prese interamente la guida. La sua nazionale, della quale per anni ne era stato il maggior esponente proprio da giocatore, lo vide protagonista di una spiacevole rissa con uno steward a bordo campo, durante una gara dell’under 23 a Panama. Tornato in patria il giorno successivo annunciò le sue dimissioni da allenatore, dichiarando di voler estraniarsi in via del tutto definitiva dal mondo del calcio.

Nonostante non abbiamo più sentito parlare di lui ormai da anni, a noi ancora oggi piace ricordarlo per quello che è stato, per i suoi goal, i suoi record, le sue follie come se non avessimo mai smesso di meravigliarci:

” E pensare che veniva dal basket…”

El Payaso che divenne Mago: Pablito Aimar l’idolo di Rìo Cuarto.

L’ Argentina ha consegnato al calcio pagine di letteratura di cui è facile abusare. Terra dall’irresistibile fascino sanguigno, è segnata da un rapporto viscerale con il cuoio, che nei campi di periferia rimbalza incerto e irregolare, come il profilo di molti ragazzi delle villas che li calcano.

Se l’Europa ti seduce, ti vizia e poi ti abbandona senza soluzione di continuità, il barrio non ti lascerà mai. È disposto ad andare persino contro la legge, affinché tu possa dimenticare tutto il resto. Come ha fatto Oscar Daniel Melero, un artista cordobino che ha scolpito una statua di Pablo Aimar a Rìo Cuarto, sua città nativa. Lo ha fatto senza autorizzazione alcuna da parte delle istituzioni cittadine, per le quali è vietato dedicare un monumento a persone ancora in vita.

Quella di Pablo Aimar è una storia controversa che ha subito il peso di una nazione che ha visto crescere sotto i propri occhi  alcuni tra i più grandi interpreti del fútbol. Il trasferimento in Europa, la gloria e i successi per i più forti, per tutti gli altri solo il fardello del giudizio e del confronto.

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Pablito nasce a Rìo Cuarto, una città di 140.000 abitanti a sud di Cordoba, e qui inizia a dare i suoi primi calci alla palla. Ragazzo timido, riservato, mostrava un evidente distacco verso tutto ciò che stava al di fuori del  rettangolo verde. Il suo profilo caratteriale contrasta fortemente con il contorno mediatico della città; Buenos Aires di fatto è una delle metropoli del mondo ed anche una ciudad piena di vitalità che non lascia spazio ad eroi introversi: el baile spesso si confonde con el juego, la pobreza si mescola al sueño di chi un giorno spera di emergere tra i grandi fuggendo da un passato fin troppo snaturato.

Per un timido ragazzo della provincia cordobina, essere catapultati a Buenos Aires è la sfida più grande a cui si possa attingere. Lo stesso Pablo ha sempre ribadito come quello sia stato lo scoglio più difficile da superare durante la sua carriera, più del suo trasferimento in Europa.

Fu un certo Daniel Passerella ad accorgersi di lui e delle sue doti da fuori classe. Abbinava un ampia visione di gioco a sprazzi di puro estro e fantasia. Come un pittore che dipinge un quadro, Pablito dipingeva calcio ammaliante per gli occhi dei tifosi e di chiunque lo abbia visto giocare. Difficile non amarlo, quel suo modo di rendere il difficile cosi semplice metteva in luce tutto il suo talento.

Quando Passarella lo prelevò dall’Estudiantes de Rìo Cuarto per portarlo ai millionarios, lui era appena quattordicenne. Soprannominato el payaso al suo arrivo per quella sua folta capigliatura che lo faceva somigliare ad un clown, venne ben presto ribattezzato come el mago, dopo aver incantato le platee delle canchas argentine  vivendo un quinquiennio idilliaco di magia pura e trionfi.

Quel magico River di metà anni anni ’90 fu etichettato come “la maquinita”  che tradotto altro non significa che “la macchinina”; sì perché quella storica formazione era davvero una macchina da gol, un macchinario che distribuiva gloria e trionfi al popolo argentino.

Pablito Aimar si trovò a farne parte guidato dal tecnico Enzo Francescoli, altra storica icona del futbol albiceleste. Nei primi anni di apprendistato con La Banda, giocava sprazzi di partita al cospetto di straordinari interpreti come SalasOrtega e Fabian Ayala.

Nel frattempo, lo si poteva ammirare da protagonista prima al Mondiale under 17 del ’95, in Ecuador, e successivamente a quello under 20 del ’97.

La selezione che ha partecipato e vinto nel ’97 in Cile, poteva disporre di una generazione che di lì a poco avrebbe scritto la storia recente del calcio argentino. Di seguito vediamo una piccola sintesi del partido contro l’Inghilterra, in cui Pablito fu il vero e proprio trascinatore della nazionale albiceleste. Ad affiancarlo un certo Juan Roman Riquelme  che di Aimar sarà avversario di tanti Superclásico Boca-River, tra i più entusiasmanti di sempre a cavallo tra gli anni ’90 e 2000.

Ai tempi del River El Mago era una delle stelle più brillanti del calcio argentino, a tal punto che da lui hanno preso ispirazione calciatori di generazioni successive. Uno su tutti Lionel Messi, che esplicitamente dichiarò :

Gioca rapido, pensa rapido, prima di ricevere palla sa già quale sarà la sua prossima mossa. Sono impressionato dalla sua velocità di pensiero, da come distribuisce il gioco e dalla qualità dei suoi passaggi.”

Queste parole lasciano chiaramente trasparire come Leo considerasse Aimar un vero e proprio insegnante, una sorta di mentore calcistico. Un modello non solo tecnico, ma anche caratteriale, nello stare in campo e nel rapportarsi ad esso, nel modo di trattare il pallone e scandire i tempi di gioco. Tutto questo, messo al servizio degli altri.  El Payaso  era uno di quelli che faceva giocare bene gli altri, e lo faceva sembrare l’unica cosa che gli importasse davvero.

In un certo senso, la figura di Aimar è ricollegabile a quella dell ‘ enganche che letteralmente tradotto significa  “ gancio ”  ma che applicata al calcio indica il ruolo del trequartista, cioè il giocatore che, dotato di maggior fantasia, funge da collante tra i reparti divenendo l’anima del gioco. Passione, fantasia, sentimento: Pablito senza dubbio è stato uno degli interpreti più brillanti. Il motivo va ben oltre le caratteristiche tecniche; amava giocare per il semplice gusto di divertirsi e far divertire. Aimar, così come altre icone del calcio argentino, resta il simbolo di un’intera generazione.Una figura iconica molto introversa, di cui ancora oggi si parla per quella straordinaria capacità di vedere il gioco e concepirlo in senso puramente estetico:

Con tutte le contraddizioni che si sviluppano intorno ai campetti del calcio amatoriale, ritengo che quest’ultimo sia molto più appassionante rispetto a quello professionistico. Semplicemente perché nel calcio amatoriale emergono maggiormente i valori di attaccamento a questo sport”

Pablo Aimar

“IL RIGORE CHE NON C’ ERA”: LA RECENSIONE SULL’INEDITO TEATRALE DI FEDERICO BUFFA.

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Partirei dal fatto che “l’Avvocato” e le sue storie mi hanno sempre appassionato per quel suo modo così romantico e dettagliato di esprimere concetti,memorie nella storia dello sport . Perché le più grandi storie di sport , come lui ci spiega , spesso nascono da un passato pieno di frastuoni. Poi incredibilmente si mescolano con quel suo modo romantico di interpretarle e quel che ne esce è una leggiadra MUSICA per le orecchie di tutti coloro che come me non hanno mai smesso di seguirlo.

Ho assistito al suo ultimo spettacolo, andato in scena al Teatro Aurora di Scandicci , nel quale Buffa stesso in prima persona si è esibito in veste di narratore- attore. Di fatto si denota chiaramente un filo conduttore che in qualche modo collega la realtà odierna , quella di tutti i giorni, e il suo show.

Definire in modo metaforico, alternando  sprazzi di pura comicità,   quello che è il titolo di uno spettacolo recitato , che rispecchia esattamente un lato  estemporaneo della vita e che si affida del resto al fato, non è cosa poco.

 Bisogna saperci fare quando si collega metafora e verità e bisogna saperne ancora di più  quando mettendo a nudo la realtà si arriva a spiegare ” il rigore che non c’era” interrogandosi direttamente sul ” come sarebbe andata se…” e cosa sarebbe esplicitamente cambiato se il destino del resto ci avesse incontrato in un’altro momento.

IL TEMA CENTRALE.

“Il rigore che non c’era” può esser interpretato come una metafora della vita.  Buffa racconta quei secondi in cui siamo costretti a prendere una decisione che può segnare per sempre la nostra esistenza. Esattamente come gli istanti che passano dal fischio dell’arbitro all’ impatto con la sfera, durante i quali il campione si interroga su dove e come tirare, quella frazione di tempo che segna il passaggio verso la gloria o la caduta nel baratro, la vittoria o la sconfitta.

Ecco che la tematica sul quale Buffa si focalizza diventa di fatto l’imprevisto,  ” un rigore” che forse avremmo potuto evitare, ma che probabilmente faceva già parte del nostro destino.

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E cosi Federico spaziando dal calcio alla musica, dall’astronomia alle grandi conquiste coloniali riesce a trasportare l’audience ad un interrogativo , facendo convogliare ogni esperienza raccontata in ” un rigore”  finale che in qualche modo ha cambiato le sorti della realtà.

LA SCENOGRAFIA.

La scenografia è molto semplice ma di impatto. Due sedie e un tavolino, su cui è seduto uno strampalato speaker radiofonico (Marco Caronna) . Un pianoforte con il suo stralunato pianista ( Alessandro Nidi ). Sullo sfondo la facciata di una casa, sulla quale si trova un graffito raffigurante la copertina di Sergent Peppers, con una porta ed una finestra da cui appare una sorta di angelo (la cantante Jvonne Giò).

Lo spettacolo inizia con Buffa che entra in scena battendo un calcio di rigore. Parte da Pelè e dal suo millesimo gol, arrivato proprio dagli undici metri. Lo Speaker chiede all’avvocato (che interpreta sé stesso) di fare con lui un programma radiofonico per risollevare le sorti della propria radio e così inizia lo show.

L’ Avvocato parte dal Grande Torino, passa quindi alle affinità tra Toro e Manchester United, a Sir Bobby Charlton, a Georgie Best.

Tuttavia però il calcio non resta l’unico tema affrontato. Di fatto l’intreccio narrativo poi, con al centro il tema del destino come inghippo, in quel gioco a incastri che tende sempre a ripetersi, passa per i Beatles, considerando i diritti civili e Bob Dylan, fino a giungere a Stanley Kubrick e alla scoperta delle Americhe.

Buffa si chiede:

“E se Colombo fosse stato convinto di aver scoperto qualcosa di diverso dall’America?”

Poi si risponde :

“Forse oggi non si chiamerebbe così”.

Ma nulla, forse, è concesso al caso. E tutto accade, o è accaduto, perché così doveva essere. Ancora una volta è il fato che decide le sorti.

Un viaggio del tutto surreale all’interno del quale si mescolano personaggi sportivi, eventi storici : una sorta di vera e propria epica sportiva che si addentra all’interno di  una serie di storie che hanno segnato il corso del nostro tempo.

Coincidenze , imprevisti ed interrogativi che celano subito un alone di mistero dietro al quale lo spettatore intuisce presto nascondersi un significato profondo degli eventi. Come già accennato,  sorge per questo spontaneo chiedersi “ Ma come sarebbe andata se...” oppure “ Cosa sarebbe cambiato …” e questo resta proprio uno dei punti chiave sul quale Buffa cerca di farci riflettere.

Un “calcio di rigore ” è  fin troppo devastante talvolta per la storia dell’umanità. Cosi devastante da cambiare in peggio o in meglio il ciclo degli eventi , o per meglio dire la storia del pianeta.

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In sintesi il filo rosso che collega le varie storie tra di loro è facilmente individuabile. In tutte le storie, positive e negative, c’è almeno un avvenimento grazie al quale (o senza il quale) le cose non sarebbero andate così. Basta essere curiosi al punto giusto e avere la voglia di cercarli. Ma per questo non preoccupatevi, non dovrete essere voi a farlo. Ci ha già pensato l’Avvocato.

Quando gli occhi guardano, il cuore legge e la mente viaggia: Coverciano , uno dei luoghi dell’anima.

” Questo scritto è incentrato su un’esperienza personale diretta. Ho voluto raccontarla perché quello che ho percepito entrando a Coverciano è qualcosa che mi ha arricchito, soprattutto dal punto di vista emotivo. Certi luoghi a volte , hanno il potere di tirar fuori emozioni che spesso neanche noi stessi sappiamo di avere dentro.”

Andrea Capolli 

Era un sabato mattina di una languida giornata soleggiata. L’estate volgeva al termine ed i colori autunnali iniziavano pian piano ad affiorare insieme ai variegati profumi  della nuova stagione.

Ricordo bene: la curiosità da un lato e l’euforia dall’altro si mescolavano dentro di me, rimarcando quell’ineffabile desiderio di conoscenza. Esattamente come un bimbo in tenera età, davanti alla vastità del mondo.

Entrare in certi luoghi rievoca sempre emozioni forti, sensazioni talvolta difficili da descrivere. Ma la consapevolezza di sentirle in modo diretto, sulla propria pelle, è una boccata d’aria fresca per il cuore.

Nel cuore dei luoghi dell’anima c’è una storia che viaggia dentro la storia. Un passato pieno di esperienza e trionfi che si mescola gentile ad un presente umile ed apprendista.

Benvenuti nel tempio del calcio, benvenuti a Coverciano!

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Quando si entra a Coverciano, il primo impatto che si ha con la struttura  e l’atmosfera del posto si traduce agli occhi in una esplicita sensazione “lussureggiante”, in primis per l’organizzazione e il mantenimento quasi maniacale degli impianti.

Quello però che percepisce il cuore è tutt’altro; improvvisamente ci si trova nel bel mezzo di una situazione conflittuale tra gli occhi e il cuore stesso. I primi evocano la realtà in modo diretto e si limitano all’apparenza della visita contemplando la struttura e l’oggettistica del museo. Il secondo invece riusciva perfettamente a leggere la storia di quel posto portandomi con la mente a viaggiare dentro ogni singola ” avventura ” degli azzurri. Era come starci dentro.

Non so se sono riuscito a rendere bene l’idea. Mentre gli occhi guardavano, il cuore leggeva e la mente viaggiava.

Sì perché una volta entrati, è davvero difficile uscire. Il museo del calcio di Coverciano racchiude alcuni dei momenti più incredibili della storia degli azzurri. Camminando attraverso i suoi corridoi si assapora veramente la nostalgia del momento.

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Trofei, immagini, maglie e persino scarpini di chi in un modo o nell’altro da protagonista ha contribuito a rendere grandi  le gesta di quella nazionale. E se poi si pensa ai tempi odierni, ad una nazionale che oggi fatica a ritrovarsi non si fa altro che enfatizzare quell’effetto nostalgico, quell’incredibile desiderio di voler rivivere il passato, di voler tornare grandi insieme ai campioni che ci hanno cresciuto.

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Vittorie e sconfitte che a tutti noi nostalgici ci sono rimaste nel cuore. Per quell’immagine limpida e chiara che ancora conserviamo di quelle sere ( che sembrano ormai cosi lontane) in cui inchiodati davanti al televisore con i familiari o gli amici riuscivamo ancora ad emozionarci davanti alle note dell’inno di Mameli.

Il passaggio da una stanza all’altra evoca certamente un cambiamento a livello percettivo. A seconda anche del ricordo più o meno vivo che si ha di quella nazionale e di quell’edizione mondiale.

Ricordo di esser entrato nelle loggia interamente dedicata ai mondiali americani. Incorniciate vi erano le maglie di Baresi, Massaro, Pagliuca e naturalmente la 10 di Roby Baggio.In un angolo un affisso ripercorreva per intero le tappe di quell’edizione.

Mi sono fermato a leggere. Per un istante ho percepito un distacco momentaneo dalla realtà. La mente di fatto tornava incredibilmente alla finale di Pasadena e le orecchie sentivano ancora l’eco delle fatidiche
parole pronunciate da Bruno Pizzul dopo l’ultimo errore dal dischetto di Roby .

Ecco personalmente torno a ribadire che in luoghi come questi la nostalgia sia un po’ di casa. Mentre con la mente continui a viaggiare nel passato , gli occhi colgono un presente quasi fugace e  il cuore assapora il gusto nostalgico di trionfi, sconfitte e abbracci che solo tu ricordi di aver vissuto.

Attraversando gli impianti sportivi, dove vi assicuro che la cura estremamente maniacale dei giardinieri, vi spinge a calpestare quel soffice prato geometrico , si giunge alla parte che emotivamente parlando resta la più incredibile.

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Un colonnato che costeggia  una pista di atletica , proprio al lato di uno dei tanti campi da gioco precede di fatto l’entrata alle lockerrooms o spogliatoi ,cosi indicati nel linguaggio internazionale.

Dunque entrando negli spogliatoi, si ha la netta percezione di come la storia corra veloce lungo i binari del tempo. Mentre la mente ripercorre i nomi di tutti quegli “eroi” che in un modo o nell’altro si sono seduti su quelle panchine durante i ritiri pre-mondiali e che hanno fatto la storia di un epoca : da Gigi Riva a  Paolo Rossi, ai vari Schillaci , Roberto Baggio , Paolo Maldini incredibilmente anche i rumori più lontani dello spogliatoio tornano ad esser musica per le orecchie e per il cuore. Una serie di note che accarezzano la nostalgia del momento.

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Poco più avanti , la palestra chiude il cerchio e segna il capolinea della mia visita a questo luogo magico.Un’insegna enorme sulla parete frontale recita ” LA STORIA ADDOSSO , IL FUTURO ADESSO”mentre al suo fianco una gigantografia degli azzurri nell’ esultanza liberatoria di Berlino 2006, rimanda al trionfo della nazionale di Lippi ai mondiali tedeschi. Ancora una volta tanti ricordi, la nostalgia prende il sopravvento ed io che sento i brividi sulla pelle.

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Se mai avrete l’occasione di trovarvi a Firenze , non dimenticatevi di passare da questo incredibile “scrigno” di ricordi. Perché Coverciano più che un centro sportivo resta ancora oggi uno dei luoghi dell’anima della città del Brunelleschi. Uno di quei luoghi che non puoi fare davvero a meno di visitare , perché in fondo è come:

“Le note di una bellissima canzone 

che di tanto in tanto riecheggia nelle nostre orecchie,

mentre il cuore ascolta e dolcemente sorride.”



Un sogno che dura da 28 anni: “Le notti magiche” di Italia ’90.


Ben otto anni dopo il trionfo di Madrid del mondiale 1982, l’Italia sentiva il bisogno di emozionarsi ancora e provare nuovamente l’estasi collettiva di quell’estate caldissima. Così, nel 1984 la Fifa assegna all”Italia l”organizzazione dei Mondiali del 1990, i quattordicesimi della storia. Dopo 56 anni, il nostro Paese torna così a ospitare una fase finale della più importante competizione calcistica.

«Il Mondiale di calcio sarà l’occasione più opportuna per dimostrare le nostre capacità organizzative.”

Già all’indomani del Mundial spagnolo, l’allora presidente della Federcalcio Antonio Matarrese si domanda: “Se è stato così bello in Spagna, chissà in Italia quale sapore potrebbe avere?”

Pronti-via, e nel febbraio 1986 lo stesso Matarrese affida il compito dell’organizzazione dei mondiali a Luca Cordero di Montezemolo, 39 anni e una già consolidata esperienza come manager di successo, prima alla Ferrari e poi nell’operazione velistica “Azzurra”. Il suo obiettivo? «Realizzare un sogno», secondo il suo slogan che invita a pensare in grande, per fare del Mondiale 1990 una vetrina dell’Italia proiettata verso il Duemila.

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IL QUADRO POLITICO-ECONOMICO

I mondiali italiani del 1990 sono segnati però in qualche modo da una serie di eventi socio-economici e non solo, che in parte influiranno sull’organizzazione dell’evento stesso.

Anzitutto, non dobbiamo dimenticare che al di fuori dei confini della penisola il 1990 è anche l’anno che aprirà la strada al processo di riunificazione delle due Germanie, portando l’Europa ad un inaspettato e repentino cambiamento, in seguito alla caduta del muro di Berlino avvenuta esattamente un anno prima.

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Come tanti altri paesi del continente, anche l’Italia risentirà dell’influenza delle tensioni socio-politiche europee. In effetti, il paese è già stato completamente inglobato da quel turbine cominciato qualche anno prima (1987, anno dell’improvvisa  caduta  della Borsa Wall Street) chiamato “declino“, che lo sta deviando verso l’ultimo stadio evolutivo di un sistema politico, economico e morale che di lì a poco sarebbe collassato .

Basti pensare alle grandi holding: era il caso della FIAT degli Agnelli che, dopo aver conosciuto i guadagni più alti della sua storia nell’anno precedente (1989), vede proprio nel 1990  l’improvviso inizio di una crisi sui fatturati e il conseguente avviarsi in un tunnel pieno di ostacoli e contraddizioni.

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Ma all’epoca pochi lo sanno, o fingono di non sapere; i più lo ignorano, godendosi beati gli ultimi giorni di un Bengodi senza solidi razionali a sostegno.

IL MONDIALE E GLI STADI 

Dall’otto giugno all’otto luglio 1990 l’Italia diventa l’ombelico del mondo calcistico. Città infiocchettate per l’occasione, stadi nuovi o ben ristrutturati e negli occhi della gente quella voglia di vincere, riscattarsi e anche “distogliere l’attenzione” dall’inizio di una crisi ormai già avviata.

Arriviamo però a quelli che furono gli impianti che ospitarono quest’edizione mondiale. In alcuni casi, lo stadio lo rinforziamo: è il caso per esempio di Roma, Napoli,  Palermo;  in alcuni casi invece lo ristrutturiamo: a Genova, Marassi assumerà le vere sembianze di uno stadio all’inglese. In altri casi li costruiamo da zero, come a Bari, dove Renzo Piano consegna il meraviglioso San Nicola, o a Torino, dove l’architetto Hutter progetta il “Delle Alpi“. In altri casi invece ci superiamo , è il caso del “Giuseppe Meazza” di Milano (San Siro) dove viene inserito il terzo anello coperto.

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Proprio San Siro viene inaugurato ufficialmente in occasione della finale di coppa Italia vinta dalla Juventus (presenti quasi 90’000 spettatori), e naturalmente si rivelerà determinante nella fatidica cerimonia d’apertura dell’8 giugno.

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In generale, quando pensiamo al mondiale del 1990 è quasi impossibile non citare o pensare a quelle che sono state “le notti magiche”. Se ce le ricordiamo forse è anche merito di una coppia tanto improbabile quanto efficace. Si tratta di  Edoardo Bennato e Gianna Nannini, che incidono l’ultimo grande quarantacinque giri della storia della musica italiana e che tutti noi all’epoca ascoltavamo con l’autoradio removibile o in uno di quei semplici sterei a mangianastri portatili che hanno segnato indelebilmente le pagine della nostra infanzia.

Inutile dire quanto quelle notti magiche ci siano rimaste nel cuore, per l’impronta fortemente emotiva e nostalgica che hanno lasciato nell’intero popolo italiano.

IL GIRONE ELIMINATORIO

Ma veniamo ai fatti: 24 squadre al via e le nostre speranze sono vivamente riposte sugli azzurrini guidati da Azeglio Vicini, subentrato ad Enzo Bearzot dopo i mondiali messicani del 1986.

La partita che inaugura la competizione è tra Argentina e Camerun; la matricola africana convince e sorprende battendo incredibilmente Maradona e compagni grazie alla rete di Oman Biyik.

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Il giorno seguente tocca all’Italia che, davanti al pubblico tricolore  pieno di aspettative, affronta all’Olimpico di Roma l’Austria. Partita dominata dagli undici di Vicini ma che non riescono tuttavia a penetrare la retroguardia austriaca. Il gol degli azzurri arriva solo a metà della ripresa ad opera del subentrato Totò Schillaci, che presto diventerà proprio uno degli emblemi della nazionale 1990, riuscendo addirittura a guadagnarsi il titolo di miglior giocatore e vincere la classifica di miglior marcatore dell’edizione.

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Nel nostro girone ci sono anche Cecoslovacchia e Stati Uniti, che si affrontano a Firenze. Sono i cecoslovacchi a vincere, anzi, a stravincere, per 5-1 trascinati dal futuro genoano Skuhravy. Nella seconda partita gli azzurri giocano proprio contro gli Stati Uniti e vincono ancora per 1-0, gol di Giannini dopo 11 minuti, faticando però moltissimo e sprecando anche un rigore con Vialli. Anche la Cecoslovacchia supera 1-0 l’Austria e allora diventa decisivo per il primo posto nel gruppo A (con Italia e Cecoslovacchia già qualificate per gli ottavi di finale) l’ultimo incontro all’Olimpico dove i nostri hanno disputato tutto il girone. Vicini lascia fuori Vialli e Carnevale per Schillaci e Baggio ed è la mossa vincente. Gli azzurri danno spettacolo, Totò segna dopo nove minuti, Roby raddoppia al 79′ con un gol che sarà presto il simbolo dei mondiali, partendo da centrocampo e facendo fuori mezza squadra avversaria prima di battere a rete.

Indimenticabili gli occhi spiritati e increduli di Schillaci cui l’arbitro nega un evidente rigore.

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Ottavi di finale. L’Italia, ancora con Baggio e Schillaci in avanti, affronta un Uruguay più cattivo che mai. La partita non si sblocca per più di un’ora, ma alla fine a decidere è ancora Totò, mentre nel finale Aldo Serena, subentrato a Berti, raddoppia con un classico del suo repertorio, il colpo di testa .

QUARTI DI FINALE E SEMIFINALE

Si vola ai quarti dove l’avversario è l’Eire di Sir. Jackie Charlton, fratello del campione inglese Bobby. Il “man of the match” è ancora lui, Totò. Donadoni riceve da Giannini e al limite dell’area decide di assumersi la responsabilità del tiro. Ne viene fuori una saetta che fulmina il para-rigori Bonner. Il portiere irlandese respinge, poi barcolla e cade. Schillaci, il predone, non si lascia sfuggire l’occasione: arriva sulla palla e con un tocco di piatto destro trova la diagonale giusta che arriva al gol. Totò fa poker in questo mondiale e l’Italia si prepara a rilanciare al tavolo di Maradona.

Gli argentini dal canto loro riescono ad avere la meglio su una Jugoslavia ostica e coriacea solo ai calci di rigore: la Jugoslavia la sovrasta ma non segna, e dopo i tempi regolamentari si va alla lotteria dei penalties. Goycochea, nuovo portiere titolare dei campioni del mondo in carica, para due penalty e qualifica i suoi.

IL SOGNO SVANITO

Si arriva a quella che per noi è stata una semifinale piena di rimpianti, che certo speravamo andasse per il verso giusto, visto che Super Totò ci aveva trascinato fin lì con un imprescindibile sete di vittoria. In effetti, è proprio lui a portarci in vantaggio con la complicità dell’estremo difensore  Goycochea; ma poi, un uscita a vuoto di Zenga permette a Caniggia di realizzare il pareggio.

Si andrà ai rigori, con gli argentini infallibili dagli undici metri: Serrizuela, Burruchaga, Olarticoechea e infine Maradona. Goycochea riuscirà a neutralizzare i tiri di Serena e Donadoni regalando ai suoi la finale di Roma, la seconda finale mondiale consecutiva.

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Una magra consolazione arriverà nella finalina per il terzo e quarto posto, dove gli azzurri superano gli inglesi per 2-1 con reti di Baggio e, ovviamente, del solito Schillaci.

UN ANNO DI CONTRADDIZIONI

Il 1990 è stato un anno che ha segnato in qualche modo un punto di svolta per gli italiani. L’Italia era al suo massimo splendore, un paese “modello” che vendeva il proprio brand, inteso proprio come Italia stessa, al mondo di fine anni ’80. Al tempo stesso, però, alcuni settori del paese (come quello automobilistico, il caso FIAT visto nel paragrafo iniziale) iniziavano ad esser toccati da un periodo di crisi che lo stavano spingendo pian piano verso una lenta decadenza.

Sarà un anno pieno di contraddizioni: da un lato il mondiale di Italia ’90 non ha raccontato soltanto le notti magiche di Totò Schillaci, simbolo di quella Nazionale, ma di un’Italia che sognava di emulare le gesta finanziarie del suo manager, Montezemolo; dall’altro lato, invece, avrebbe dovuto esser il motore risolutorio di una situazione che all’interno del paese andava pian piano peggiorando. Si potrebbe definire la “medicina” per un’Italia che lentamente si stava avviando verso la malattia, un declino lento e sofferente che avrebbe condotto il paese negli anni successivi a quella che è stata etichettata come una delle peggiori crisi economiche nella storia della penisola.

A distanza di 28 anni dal mondiale, oggi l’Italia è ancora in cerca di un’identità che in qualche modo la riporti ad essere il paese prospero di un tempo. Tuttavia, tra gli italiani non si è del tutto smarrita quella voglia incredibile di tornare a sognare, provare l’emozione di un qualcosa che li faccia di nuovo sentir grandi proprio come in quelle calde notti magiche. Del resto è l’orgoglio per il nostro paese, che fin da sempre ci contraddistingue, a tenerci ancora in piedi.

Anche per questo, forse, quell’edizione mondiale e le sue “notti magiche” le ricordiamo sempre con un sorriso nostalgico. Perché veramente hanno rappresentato l’apice di un bellissimo sogno, svanito solo sul più bello.