L’ Argentina ha consegnato al calcio pagine di letteratura di cui è facile abusare. Terra dall’irresistibile fascino sanguigno, è segnata da un rapporto viscerale con il cuoio, che nei campi di periferia rimbalza incerto e irregolare, come il profilo di molti ragazzi delle villas che li calcano.
Se l’Europa ti seduce, ti vizia e poi ti abbandona senza soluzione di continuità, il barrio non ti lascerà mai. È disposto ad andare persino contro la legge, affinché tu possa dimenticare tutto il resto. Come ha fatto Oscar Daniel Melero, un artista cordobino che ha scolpito una statua di Pablo Aimar a Rìo Cuarto, sua città nativa. Lo ha fatto senza autorizzazione alcuna da parte delle istituzioni cittadine, per le quali è vietato dedicare un monumento a persone ancora in vita.
Quella di Pablo Aimar è una storia controversa che ha subito il peso di una nazione che ha visto crescere sotto i propri occhi alcuni tra i più grandi interpreti del fútbol. Il trasferimento in Europa, la gloria e i successi per i più forti, per tutti gli altri solo il fardello del giudizio e del confronto.
Pablito nasce a Rìo Cuarto, una città di 140.000 abitanti a sud di Cordoba, e qui inizia a dare i suoi primi calci alla palla. Ragazzo timido, riservato, mostrava un evidente distacco verso tutto ciò che stava al di fuori del rettangolo verde. Il suo profilo caratteriale contrasta fortemente con il contorno mediatico della città; Buenos Aires di fatto è una delle metropoli del mondo ed anche una ciudad piena di vitalità che non lascia spazio ad eroi introversi: el baile spesso si confonde con el juego, la pobreza si mescola al sueño di chi un giorno spera di emergere tra i grandi fuggendo da un passato fin troppo snaturato.
Per un timido ragazzo della provincia cordobina, essere catapultati a Buenos Aires è la sfida più grande a cui si possa attingere. Lo stesso Pablo ha sempre ribadito come quello sia stato lo scoglio più difficile da superare durante la sua carriera, più del suo trasferimento in Europa.
Fu un certo Daniel Passerella ad accorgersi di lui e delle sue doti da fuori classe. Abbinava un ampia visione di gioco a sprazzi di puro estro e fantasia. Come un pittore che dipinge un quadro, Pablito dipingeva calcio ammaliante per gli occhi dei tifosi e di chiunque lo abbia visto giocare. Difficile non amarlo, quel suo modo di rendere il difficile cosi semplice metteva in luce tutto il suo talento.
Quando Passarella lo prelevò dall’Estudiantes de Rìo Cuarto per portarlo ai millionarios, lui era appena quattordicenne. Soprannominato el payaso al suo arrivo per quella sua folta capigliatura che lo faceva somigliare ad un clown, venne ben presto ribattezzato come el mago, dopo aver incantato le platee delle canchas argentine vivendo un quinquiennio idilliaco di magia pura e trionfi.
Quel magico River di metà anni anni ’90 fu etichettato come “la maquinita” che tradotto altro non significa che “la macchinina”; sì perché quella storica formazione era davvero una macchina da gol, un macchinario che distribuiva gloria e trionfi al popolo argentino.
Pablito Aimar si trovò a farne parte guidato dal tecnico Enzo Francescoli, altra storica icona del futbol albiceleste. Nei primi anni di apprendistato con La Banda, giocava sprazzi di partita al cospetto di straordinari interpreti come Salas, Ortega e Fabian Ayala.
Nel frattempo, lo si poteva ammirare da protagonista prima al Mondiale under 17 del ’95, in Ecuador, e successivamente a quello under 20 del ’97.
La selezione che ha partecipato e vinto nel ’97 in Cile, poteva disporre di una generazione che di lì a poco avrebbe scritto la storia recente del calcio argentino. Di seguito vediamo una piccola sintesi del partido contro l’Inghilterra, in cui Pablito fu il vero e proprio trascinatore della nazionale albiceleste. Ad affiancarlo un certo Juan Roman Riquelme che di Aimar sarà avversario di tanti Superclásico Boca-River, tra i più entusiasmanti di sempre a cavallo tra gli anni ’90 e 2000.
Ai tempi del River El Mago era una delle stelle più brillanti del calcio argentino, a tal punto che da lui hanno preso ispirazione calciatori di generazioni successive. Uno su tutti Lionel Messi, che esplicitamente dichiarò :
“Gioca rapido, pensa rapido, prima di ricevere palla sa già quale sarà la sua prossima mossa. Sono impressionato dalla sua velocità di pensiero, da come distribuisce il gioco e dalla qualità dei suoi passaggi.”
Queste parole lasciano chiaramente trasparire come Leo considerasse Aimar un vero e proprio insegnante, una sorta di mentore calcistico. Un modello non solo tecnico, ma anche caratteriale, nello stare in campo e nel rapportarsi ad esso, nel modo di trattare il pallone e scandire i tempi di gioco. Tutto questo, messo al servizio degli altri. El Payaso era uno di quelli che faceva giocare bene gli altri, e lo faceva sembrare l’unica cosa che gli importasse davvero.
In un certo senso, la figura di Aimar è ricollegabile a quella dell ‘ enganche che letteralmente tradotto significa “ gancio ” ma che applicata al calcio indica il ruolo del trequartista, cioè il giocatore che, dotato di maggior fantasia, funge da collante tra i reparti divenendo l’anima del gioco. Passione, fantasia, sentimento: Pablito senza dubbio è stato uno degli interpreti più brillanti. Il motivo va ben oltre le caratteristiche tecniche; amava giocare per il semplice gusto di divertirsi e far divertire. Aimar, così come altre icone del calcio argentino, resta il simbolo di un’intera generazione.Una figura iconica molto introversa, di cui ancora oggi si parla per quella straordinaria capacità di vedere il gioco e concepirlo in senso puramente estetico:
“Con tutte le contraddizioni che si sviluppano intorno ai campetti del calcio amatoriale, ritengo che quest’ultimo sia molto più appassionante rispetto a quello professionistico. Semplicemente perché nel calcio amatoriale emergono maggiormente i valori di attaccamento a questo sport”
Pablo Aimar